A Quiet Place, film diretto, scritto e interpretato da John Krasinski, è sicuramente un’operazione di quelle intelligenti che ambisce a raccontare dei fatti partendo dal dettaglio che ne domina la scena.
Più in generale però, prima di analizzare il film, è giusto porsi una domanda che a mio modestissimo parere incarna il tipo di lavoro che è stato fatto durante l’elaborazione delle tre fasi precedenti alle riprese – trattamento, soggetto e sceneggiatura – ma soprattutto pensando a una solida trovata che potesse garantire la coerenza del racconto.
Semina e raccolta
Su cosa deve poggiarsi un’intuizione affinché possa far germogliare un’idea che guidi verso una visione innovativa? Soprattutto se pensiamo a generi come fantascienza o horror, la possibilità di trovare una strada interessante per raccontare una storia si assottiglia notevolmente, vuoi anche perché i due generi sono stati raccontati, nell’ultimo decennio, in ogni modo possibile e immaginabile con pochi risultati degni di nota.
Spesso le migliori trovate nascono da un dettaglio, qualcosa che sviluppi un concetto di partenza in modo da crescere e attecchire, grazie a uno specifico elemento o particolare che scorga la struttura creativa. Una scintilla che permetta di illuminare il giusto percorso, con la quale ci si possa orientare, un valido punto di riferimento nella ricerca di un cammino ben tracciato e delineato.
A Quiet Place parte proprio da questo: un’intuizione che si regge su un’idea impercettibile (il suono), che viene mutata in forma e immagine (creature con sensi acutissimi) affinché soggetto e trama possano germogliare in salute.
Il silenzio diviene epicentro e pilastro che va a sorreggere la credibilità della storia, ne domina lo svolgimento mediante le sue rigide regole a cui nessuno può sottrarsi ma solo adattarsi per sopravvivere, in un mondo in cui il suono diventa sentenza di morte.
John Krasinski si è dimostrato in questo un visionario, nel non raccontare la solita invasione aliena ricca di banalità e cliché, o non cadere nella trappola di sfornare l’ennesima produzione sterile seguendo una trama ciclica. Insomma, ha saputo partire brillantemente da un particolare che potesse diventare il vero filo conduttore su cui far reggere l’intera storia e sfociare nel generale, ovvero un mondo rovesciato, capovolto, completamente stravolto.
Per chi non conoscesse Krasinski consiglio di ammirare la sua straordinaria performance attoriale nella serie The Office, prodotto per il piccolo schermo che lo ha consacrato a livello di notorietà, oltre che dargli modo di affinare le sue doti attoriali (grazie anche alla possibilità di lavorare fianco a fianco con Steve Carell, che tutti conosciamo per le sue grandissime capacità recitative, non solo per quanto riguarda il genere comico: La Grande Scommessa o Vice – L’uomo nell’ombra, tanto per citarne due).
Il germe dell’idea
Una storia semplice nell’idea, ovvero la sopravvivenza di una famiglia che vede sconvolta la propria esistenza, come il resto delle famiglie della Terra, da una minaccia esterna; qualcosa di tanto inusuale da diventare sin da subito l’incubo di un’intera specie, incapace di organizzarsi efficacemente per poter contrastare l’occupante.
Ma chi è questo occupante, questa terribile minaccia che mette in ginocchio le grandi nazioni rendendo lo stesso esercito uno strumento di tutela inadeguato per salvaguardare l’umanità da una ineluttabile estinzione? Solitamente quando si pensa all’invasore alieno, si crede che la minaccia intergalattica debba ostentare una potenza tecnologica superiore a quella dell’uomo, a sottolineare la nostra rudimentale tecnologia e i limiti di una specie incapace di limitare l’avanzata.
Bè, non sempre l’evoluzione di una specie dimostra il suo potenziale sfruttando armi tanto potenti da essere impensabili solo nell’ipotetica idea di concezione. A volte l’elemento di supremazia può identificarsi nella componente biologica, un qualcosa di tanto efficace da ritrovarsi spiazzati e non sapere come affrontare tale problematica: le terribili creature aliene sono dotate di un udito talmente sviluppato da percepire qualunque suono anche a chilometri di distanza, e lanciarsi all’attacco di chi o cosa lo ha emesso in un tempo spaventosamente breve.
I presupposti di A Quiet Place – anzi dei film in quanto sono attualmente due – partono proprio dal raccontare gli eventi non seguendo un ordine temporale cronologico. Immergono piuttosto lo spettatore prima nella consolidata paura e disperazione quotidiana di sentirsi in trappola, per poi andare a scoprire, tramite il secondo film della saga, l’evento scatenante che ha sfiancato l’umanità fino alla situazione attuale da cui parte la prima pellicola: un contesto desolato e mortifero che vede la famiglia Abbot resistere giorno dopo giorno.
In tale contesto da fine del mondo, questa famiglia dovrà cimentarsi con dolori strazianti, difficoltà interne (la moglie che deve partorire: ottima prova anche di Emily Blunt), il ritrovarsi isolati dal resto dell’umanità ormai quasi tutta annientata e affrontare questi esseri dalla pelle resistente quanto una corazza, oltre a fare i conti con la loro arma più letale, dei sensi acuti che riescono a sopperire alla cecità.
Uccelli in gabbia
L’idea di partenza di A Quiet Place, come detto, è quella di far immergere lo spettatore in un contesto che faccia provare sensazioni quali spaesamento e angoscia. Quello che colpisce è una scritta che anticipa le immagini: giorno 89. La linea narrativa si apre, quindi, con l’attuale angosciosa e spettrale scenografia di una realtà impalpabile: non sappiamo cosa sia successo, possiamo solo osservare il contesto di desolazione che avvolge una cittadina priva di interazione sociale.
Molto accurati i dettagli: un’inquadratura della città ormai fantasma, un semaforo caduto a terra , la vegetazione che ha spaccato l’asfalto, alcuni volantini di persone scomparse attaccate a una bacheca e infine un supermercato prima inquadrato dall’esterno e poi osservato nei suoi spazi interni e caotici, anch’essi dominati dal silenzio.
Proprio nel supermercato – chiaro riferimento alla sopravvivenza – ci imbattiamo nella famiglia Abbot, quella parte di umanità sopravvissuta che deve fare i conti con le difficoltà quotidiane di una realtà in cui l’ordine naturale delle cose è stato sconvolto. Ogni interazione è condita dalla gestualità, regola principe non emettere il più impercettibile suono e limitarsi a comunicare visivamente. Lo stesso Krasinski regista e co-sceneggiatore della saga, partecipa nel cast in quanto capofamiglia che deve guidare e proteggere i suoi cari dalla minaccia aliena, che può aggredire in qualsiasi momento.
L’unione di questa famiglia è molto solida e la loro organizzazione non è da meno. La stessa scena in cui vediamo il più piccolo dei figli desideroso di ascoltare i suoni dello space shuttle giocattolo è straziante: a malincuore sia padre che sorella cercano di fargli capire quanto delle semplici batterie possano diventare la più pericolosa delle minacce.
Un grande plauso va fatto a Krasinski per quanto riguarda il lavoro fatto sulla riflessione del legame tra figli e genitori, utilizzando quasi mai la parola ma soprattutto gestualità ed espressioni. Una carezza, un abbraccio o il guardarsi profondamente negli occhi in un tripudio di sentimento che glorifica l’animo umano e la conseguente forza che risiede in esso. Sono proprio questi dettagli che rendono ancora più granitica l’idea del film: il silenzio che deve dominare per scongiurare una potenziale aggressione.
La famiglia Abbot si concentra proprio su tali aspetti, le movenze, il non emettere il minimo suono. Oltretutto, riflessione nella riflessione, la disabilità della figlia che non può sentire e che diventa un’ulteriore analisi della tematica del suono approfondendo, in particolare, il rapporto figlio genitore; un impatto emotivo che esalta ancora di più le dinamiche interne di una famiglia che deve affrontare ulteriori difficoltà, ma che cerca di non arrendersi in nessun modo.
Il suono, quindi, è una riflessione a trecentosessanta gradi oltre che idea per creare una narrazione, spingendo lo spettatore a riflettere, analizzare, capire, comprendere cosa il regista cerchi di comunicare. Poter superare determinati limiti che vedono la più grande capacità comunicativa della specie dominante sul pianeta – che tra tutte le specie è l’unica dotata di parola – diventare una barriera da superare per riuscire ad adattarsi (Darwin docet).
Una pellicola che trova la sua forza nel poter comunicare anche senza le parole ritornando da un certo punto di vista, seppur diversamente, agli aspetti primordiali del cinema muto; questo potrebbe far pensare a un’operazione fragile, privare il cinema stesso del dialogo che oggi è un elemento essenziale, ma in realtà proprio la struttura di come è usato tale escamotage, cioè l’uso di un’alternativa forma comunicativa, risulta vincente.
L’atmosfera e le musiche
Sicuramente una caratteristica che ha reso A Quiet Place molto solido sono le musiche di Marco Beltrami. Proprio la scelta di suoni angoscianti e profondi aumentano ancora di più l’empatia dello spettatore, che non può non farsi suggestionare da una colonna sonora che è un vero concentrato di tensione. Un connubio tra l’immagine e lo stesso suono che si muovono di pari passo aumentando, di conseguenza, il pathos e la claustrofobia di un immaginario senza via di scampo. Ogni brano viene composto e confezionato per fondersi con specifiche sequenze impostate affinché chi guarda le pellicole percepisca la speranza che giorno dopo giorno traballa, si assottiglia e rischia di svanire definitivamente.
Personalmente la mia lettura di A Quiet Place si concentra proprio su quanto il suono in ogni sua forma diventi colonna portante. Una base su cui far reggere l’intero metalinguaggio di un soggetto che, senza questa trovata, si sarebbe tramutato nell’ennesimo film post-apocalittico/horror/suspense che cerca di basare tutto sull’effettistica e l’azione.
Invece no, si è scelta una strada diversa, una strada in cui il ritmo è scandito dal mutamento di uno sguardo o di un espressione, in cui un silenzio può significare minaccia, così come può rappresentare un momento di profonda comunicazione o contemplazione. Per citare due tra i più grandi maestri del cinema, Hitchcock e Argento hanno fondato la loro credibilità sulla tensione emotiva, l’atmosfera e il ritmo accompagnato da colonne sonore che potessero far sprofondare lo spettatore in un’esperienza estremamente sensoriale, non solo dal punto di vista visivo.
Krasinski nel suo piccolo fa questo. Certo, non siamo ai livelli di quei mostri sacri, ma comunque deve essere premiato il coraggio di un giovane emergente che ha provato a raccontare un cinema basato non solo su colpi a ripetizione o CGI, e a scavare nel profondo della psicologia umana – effettivamente l’uomo senza il suono vivrebbe una vita estremamente spaesante e costrittiva, figuriamoci senza la parola.
Conclusioni
Oggigiorno trovare prodotti interessanti che salvaguardino l’importanza dell’idea, rispetto il mero scopo di richiamare pubblico tramite escamotage effettistici roboanti conditi dalla frenetica azione, non è cosa facile. L’importanza dell’aspetto recitativo, personalmente, deve sempre distinguersi e consacrarsi come cardine essenziale in quanto l’elemento emotivo non può mai decadere. Il cinema nasce come forma d’arte e come tale deve sempre rammentare a se stesso in ogni sua componente – case di produzione, registi, attori, sceneggiatori – di raccontare storie che sappiano innescare nello spettatore delle emozioni.
Per quanto riguarda A Quiet Place, reputo il primo film un’opera decisamente interessante per come viene sviluppata la storia: è innegabile il buon uso di specifici strumenti metalinguistici e narrativi che vengono abilmente sfruttati per poter raccontare qualcosa di diverso. Qualcosa che possa interessare il pubblico vivendo un’esperienza di forte impatto emozionale.
Sicuramente non siamo davanti a un capolavoro o un’opera tale che possa contribuire ad arricchire l’evoluzione narrativa dello stesso cinema, ma di sicuro offre un prodotto di qualità. Quello certamente viene garantito.