Nonostante i ripetuti tentativi, finora Hollywood ha a malapena intaccato il valore dei fumetti di Alan Moore. Che siano live-action o animazione, destinati al piccolo o al grande schermo, i vari adattamenti non sono riusciti a trovare la chiave di volta per rappresentare adeguatamente le idee e le visioni del geniale scrittore inglese.
Non si tratta certo di casi isolati, la mania contemporanea dei cinefumetti ha visto il proliferare di tanti film ben lontani dall’essere trasposizioni riuscite. Tuttavia il caso delle graphic novel di Moore fa storia a sé, vuoi per l’inestinguibile sfiducia dell’autore nei confronti di qualsivoglia operazione commerciale, vuoi per il divario qualitativo – spesso imbarazzante – tra fonte originale e adattamento.
Elencare ed esaminare gli stravolgimenti del materiale originale richiederebbe una lunghissima e accurata analisi dei fumetti stessi. Quella che segue è invece una riflessione utile anche a chi non conosce le opere originali. Una disamina di alcune decisioni nella catena produttiva che hanno minato fin dalle basi questi progetti, dalla scelta di registi fino alla messa in scena di determinate sequenze. I motivi, insomma, per cui Alan Moore e il cinema proprio non vanno d’accordo.
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Uscito nel 2001 per la regia dei fratelli Allen e Albert Hughes, From Hell porta sullo schermo l’omonima graphic novel pubblicata due anni prima (disponibile nell’originale bianco e nero, o nella nuova versione a colori), e commette forse il maggiore dei peccati nei confronti di un fumetto d’autore: se già rivisitare gli spunti più interessanti presenti su carta e fallire nel tentativo può essere una sconfitta, non provarci neanche è una manifesta dichiarazione di incompetenza. Di fronte a un’opera di tale caratura, il rifiuto a priori di un confronto con le intenzioni dell’autore denota anche una profonda mancanza di rispetto.
In From Hell Moore imbastisce una mastodontica e meticolosa ricostruzione della storia di Jack lo Squartatore. Tramite uno storytelling crudo, l’opera attraversa la storia e le vite di diversi personaggi nel corso di molti anni, anche prima delle nefaste vicende di Whitechapel. Nelle tavole (disegnate da Eddie Campbell) emergono diverse chiavi di lettura socio-politiche e sfumature narrative che toccano, con mirabile lucidità, anche temi come esoterismo e massoneria.
Da questo immenso affresco, al quale il mio riassunto non rende minimamente giustizia, i fratelli Hughes in sostanza hanno tratto un banalissimo thriller in costume. Laddove il fumetto è narrato proprio dal punto di vista del famigerato serial killer – la cui identità è rivelata senza troppi fronzoli nei capitoli iniziali – il film invece sfrutta la classica struttura del whodunit (il giallo con rivelazione finale), in cui protagonista è l’investigatore. Ogni ostacolo all’appetibilità per il pubblico generalista viene rimosso: il detective di mezza età e sentimentalmente frustrato del fumetto diventa il bello e dannato Johnny Depp, che ammalia senza difficoltà una delle prostitute prese di mira dallo Squartatore.
L’intento di Moore non era solo di tirare le fila, con non poca audacia, di centinaia di saggi, resoconti e libri sulla materia. L’autore ha prodotto un vero e proprio character study, elaborando una versione credibile dei fatti storici: una rigorosa analisi della figura dell’assassino, una ricerca metodica sulle sue azioni e sulle possibili implicazioni, di stampo filosofico e sociale, che le hanno provocate. Un lavoro troppo complesso e quindi poco attuabile in ottica commerciale, per il sollievo degli sceneggiatori che hanno ripiegato su un più comodo compitino basilare. Scialbo esempio di massimo risultato col minimo sforzo.
La Lega degli Straordinari Gentlemen
La banalizzazione del materiale originale si reitera su un altro lavoro raffinato del Bardo di Northampton indegnamente trasposto al cinema, stavolta in salsa action. Il titolo semplificato della distribuzione italiana sembrava già prefigurare lo sfacelo. Con La Leggenda degli Uomini Straordinari ci si trova davanti a un proto-Avengers ambientato a fine Ottocento; e no, questo non è affatto un complimento.
Da un punto di vista prettamente cinematografico infatti il film presenta tutti i difetti del film di Joss Whedon (regia piatta con pochi sussulti che sfociano nell’esibizionismo sfrenato, gag comiche fuori luogo), mentre Moore nel fumetto sfruttava il teamup di supereroi in maniera più creativa e decisamente più sobria. La Lega degli Straordinari Gentlemen comincia invero come una sorta di “Justice League dell’Inghilterra vittoriana” (descritta così proprio dall’autore), ma utilizza quel canovaccio per intrecciare un discorso metanarrativo sulla scrittura stessa e sugli archetipi di genere; la profonda conoscenza della corrente letteraria di quell’epoca consentiva a Moore di proporre una sontuosa rivisitazione di classici come Sherlock Holmes, Dr. Jekyll e Mr. Hyde, L’uomo invisibile, Ventimila Leghe sotto i Mari, e tanti altri.
Di tutto questo nel film rimane ben poco, poiché all’introspezione dei personaggi è stata preferita una maggiore dose di azione, inseguimenti e sparatorie. A parte un lieve accenno al tono crepuscolare che accompagna le gesta di vecchi avventurieri (come il personaggio di Allan Quatermain), la pellicola spoglia la storia dei suoi elementi più incisivi e affascinanti. Le colpe qui risalgono a monte, precisamente alla scelta dei filmmaker: la regia anonima e votata all’action caciarone si deve a Stephen Norrington, dimenticabile regista del primo cinefumetto moderno (Blade); al contrario dal copione di James Robinson ci si aspettava maggiore considerazione per il materiale originale.
Lavorando prevalentemente nel mercato fumettistico, oltre a varie storie degli Avengers e della Justice League, Robinson aveva scritto serie come Starman e The Golden Age: in eccellente equilibrio tra impulsi autoriali e intrattenimento, queste storie trattano il confronto generazionale tra eroi, il concetto di eredità, le dinamiche tra supereroismo e mutamenti sociali del 20° secolo. Riflessioni del genere avrebbero sicuramente dato più dignità ai Gentlemen cinematografici, ma a quanto pare chi scrive fumetti non è una garanzia per trasporli a dovere sul grande schermo.
V for Vendetta
Forse il più conosciuto di questi film è proprio V for Vendetta, forte anche della sua particolare iconografia (abbondantemente sfruttata dal reparto marketing). Per certi versi lo si potrebbe considerare l’unico tra gli adattamenti dei lavori di Moore con una valenza artistica e una sua identità. A differenza delle precedenti, questa trasposizione non si limita a portare sullo schermo personaggi e trama di base, ma opera una lodevole reinterpretazione di alcune tematiche della magnifica graphic novel.
Le sorelle Lana e Lilli Wachowski, conosciutissime per la trilogia The Matrix, si sono occupate di sceneggiatura e produzione. Dietro la cinepresa figura il loro aiuto regista, James McTeigue, qui al suo primo lungometraggio da solista. Come le sue mentori, McTeigue fa dell’estetica uno dei punti forti del film: sfodera una messa in scena notevole, concedendosi alcuni virtuosismi che fortunatamente non sfociano troppo nella spettacolarizzazione gratuita.
Le note dolenti però sono difficili da ignorare, motivo per cui al netto dei pregi sopracitati la pellicola rientra nel novero di questa rassegna. Gran parte della carica sovversiva della storia originale, potenzialmente scomoda per una produzione mainstream, è stata annacquata; il protagonista, celato dalla famosa maschera stilizzata di Guy Fawkes, ha una bussola morale meno ambigua, agendo per un fine più romantico. Il V del fumetto non si limita a fomentare una rivoluzione per la libertà del Regno Unito, ma ambisce all’anarchia nella sua accezione più pura e senza compromessi (l’abolizione di governi e leader).
La sceneggiatura regala anche dialoghi e monologhi molto ispirati, recitati egregiamente e con stile a tratti teatrale dall’ottimo cast. La distopia originale, seppure reimmaginata ai giorni nostri (e riconducibile al panorama del terrore post-11 Settembre), mantiene saldi determinati punti fissi della storia ideata da Moore e dal disegnatore David Lloyd. Purtroppo è sempre poca cosa, rispetto al monumentale lavoro emerso tra le pagine di uno dei più grandi fumetti del secolo scorso.
Watchmen
La trasposizione più contraddittoria tra tutte è legata a un nome altrettanto divisivo. Dopo anni di progetti arenati, la versione cinematografica di Watchmen, punta di diamante della bibliografia americana di Alan Moore, finisce nelle mani di Zack Snyder. Il regista di 300 e Batman v Superman: Dawn of Justice ha polarizzato le opinioni di pubblico e critica come pochi altri nel mondo dei blockbuster contemporanei.
Trarre una pellicola dalla rivoluzionaria epopea mooriana sui vigilanti non era cosa facile. L’impresa ha messo in crisi anche cineasti di alto calibro (anni fa persino il caparbio Terry Gilliam gettò la spugna, convinto di non rendere giustizia al fumetto). Il film di Snyder paradossalmente riesce a mancare il bersaglio pur adottando un approccio molto letterale.
Interi dialoghi del fumetto sono ripresi pedissequamente nel copione, e molte scene sono filmate in modo da ricreare le vignette e lo storytelling di Dave Gibbons (l’illustratore dei 12 numeri della serie originale). Questa operazione, sulla carta apparentemente rispettosa delle fonti, purtroppo denota una visibile artificiosità di fondo. Riproporre intere sequenze dalla carta difficilmente comunica sullo schermo lo stesso feeling, quel cuore pulsante che anima i personaggi e le vicende originali, se non si comprendono i significati e le intenzioni.
Snyder vorrebbe elevare il film con la sua estetica radicale, ma indugia con mano pesantissima su dettagli superflui (tra cui una violenza stilizzata tendente allo splatter). Le inquadrature esaltano azione e fisicità con ridondante uso di slow-motion, tanto che i personaggi sembrano dei superuomini più che vigilanti reietti in crisi; la fotografia desaturata è carica di orpelli antitetici all’impronta elegante e “pop” data da Moore e Gibbons. Tutti questi stratagemmi visivi non fanno che evidenziare la fredda meccanicità dell’adattamento, più attento a replicare parole e situazioni che non a sviluppare a fondo sensazioni, tematiche e risvolti del fumetto.
Ci sarebbero da menzionare anche Constantine, Swamp Thing e The Killing Joke, ma per motivi diversi meritano menzione in altra sede. In conclusione, vale la pena ricordare che Alan Moore è noto per aver sempre rifiutato l’idea di raccontare le sue storie in altri media. A differenza dei disegnatori che lo hanno affiancato, ha rinunciato ai profitti e a una maggiore visibilità presso il pubblico estraneo ai fumetti. Visti i risultati, chi può dargli torto?