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Beetlejuice Beetlejuice: Tim Burton cosa combini?

Beetlejuice Beetlejuice avrebbe segnato il tanto atteso ritorno di Tim Burton a una regia irriverente e non curante dei veti delle major che gli hanno impedito, in particolare dal 2010 con Alice in Wonderland (ma in realtà, già dagli albori della sua carriera), di esprimersi liberamente. La critica lo ha osannato, il pubblico adorato, e con questa calorosa accoglienza non stupisce sia diventato la seconda apertura più alta nella carriera del regista, dopo l’Alice di cui sopra.

Personalmente, ritengo questo sequel uno dei suoi peggiori film e intendo approfittare dell’atmosfera bizzarra di Halloween per spiegarvi, con toni estremamente leggeri, i motivi per cui non mi sia piaciuto. Per darvi un’idea del livello di gradimento che la pellicola mi ha ispirato, pensate a quel fastidiosissimo vicino di poltroncina che illumina a giorno la sala perché trova più interessante le notifiche sul suo smartphone piuttosto che guardare il film. Ecco, quello spettatore ero io.

Per raccontarvi nel dettaglio le mie impressioni sull’ultima operazione burtoniana, occorrerà fare qualche SPOILER e aprire le danze con una nota introduttiva sul primo capitolo di quella che sembra diverrà a tutti gli effetti una nuova saga cinematografica, dal momento che il finale di Beetlejuice 2 ha lasciato aperti ipotetici e tutt’altro che esilaranti sviluppi.

 

Beetlejuice Beetlejuice poster
Beetlejuice Beetlejuice

 

“Non c’è fantasma con più carisma” – Beetlejuice

Gli assi nella manica della pellicola del 1988 sono stati da un lato la semplicità della trama, che ha portato sul grande schermo qualcosa che non si era ancora visto e affondava le radici nell’essenza della creatività del suo regista, dall’altro lo stesso Beetlejuice, interpretato da un Michael Keaton all’epoca in gran forma e all’apice della sua carriera. Con il suo senso dell’umorismo oscuro ci è entrato nella testa e ci ha posti davanti all’ancestrale dubbio se ridere o meno di battute non sempre politicamente corrette. Ma eravamo sul finire degli anni ’80 e la questione era ben lungi dal diventare spinosa come ai giorni nostri.

La regia di Tim Burton ci portava in una specie di parco dei divertimenti spettrale, con scenografie ed effetti speciali che, sebbene possano sembrare un po’ datati, avevano una qualità artigianale che oggi li rende ancora affascinanti, coadiuvati dalla colonna sonora del fedelissimo Danny Elfman che ben si sposava con il tono del film. Non a caso, la pellicola vinse l’Oscar per il miglior trucco e ottenne due nomination ai Bafta del 1989 per trucco e migliori effetti speciali.

Ma c’è dell’altro, perché Beetlejuice permetteva anche di riflettere su temi profondi quali l’accettazione della morte e l’importanza dell’individualità, mantenendo quella buona dose di black humour e di surrealismo tipici del Tim Burton dell’epoca.

 

Barbara Maitland

 

Con il sequel la storia (non) si ripete

Il 5 Settembre del 2024, trentasei anni dopo quel Beetlejuice che ha segnato più di una generazione – e due giorni dopo che Burton ha ricevuto la stella sulla Walk of Fame – è uscito nelle sale il suo diretto sequel e non vi nascondo che un po’ temevo perché, come siamo soliti ripetere troppo spesso ultimamente, “forse non ce n’era bisogno”: nel 1988, lo Spiritello Porcello era stato rispedito nell’Aldilà e la famiglia Deetz aveva ritrovato la serenità, imparando a vivere sotto lo stesso tetto con i fantasmi di Adam e Barbara Maitland.

Lydia era diventata brava a scuola e aveva preso a ballarsela, sorridente, sulle note di Jump in the line (1961) di Harry Belafonte. Potevamo lasciare la storia inalterata? No: a cinque anni da Dumbo e dall’addio (definitivo?) alla Walt Disney, Tim Burton ha riportato in sala chi nell’88 aveva visto il film con Keaton & co., chi lo ha scoperto crescendo e le giovani leve che, oggi, muovono i primi passi verso la cinefilia.

 

 

Non si può negare che, analizzato da questa prospettiva, Beetlejuice Beetlejuice sia stato un’esperienza totalizzante che ha avvicinato tra loro più generazioni, facendo leva sul suo protagonista. E proprio qui cominciano i problemi, ma prima di entrare nel vivo della questione, vi spiegherò quale sia la trama di questo seguito, prima secondo l’opinione comune, poi secondo il mio punto di vista.

Prima di iniziare, premetto due cose fondamentali: adoro Tim Burton e amo quando nei film si canta e si balla. Ricordatelo quando arriveremo alla fine di questo folle (ma per motivi sbagliati) viaggio che è Beetlejuice Beetlejuice. “It’s showtime!”

 

 

Beetlejuice Beetlejuice – La sinossi secondo il pubblico

Con il secondo capitolo torniamo a Winter River, nel Connecticut, dove Lydia Deetz si trova a dover affrontare i fantasmi del suo passato, sia letteralmente che figurativamente, perché continua a essere tormentata dal ricordo dei suoi incontri col focoso Beetlejuice che voleva a tutti i costi sposarla.

Dopo alcuni eventi misteriosi, Lydia scopre che lo Spiritello è tornato e ha bisogno di lei per liberarsi della sua ex moglie. Questo ritorno avviene in un contesto in cui il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti è diventato sempre più labile, con nuove entità e fantasmi che iniziano a popolare la vita di Lydia, che del suo dono da sensitiva ne ha fatto un lavoro e uno spettacolo televisivo.

Inoltre, a turbare la sua quotidianità, il particolare rapporto con la figlia Astrid, che nutre nei suoi confronti una forte avversione, e con la sua matrigna Delia, affermatasi nel mondo dell’arte contemporanea e rimasta da poco vedova. L’obiettivo di Lydia sarà quello di risolvere un problema (letteralmente) di vita o di morte che riguarderà Astrid e, per far sì che tutto finisca per il meglio, avrà bisogno proprio dell’aiuto del suo più acerrimo nemico, Beetlejuice.

 

Astrid Deetz

 

Beetlejuice Beetlejuice – La sinossi secondo me

Ecco, invece, quello che ho visto io in merito ai principali personaggi di cui tratteggerò connotazioni e storyline. Partirò da uno dei più grandi problemi della pellicola, il protagonista, dietro cui si nasconde un serio problema di malriuscito adattamento alla modernità e fastidioso anacronismo.

 

Keatonjuice fuori tempo massimo

Michael Keaton riprende il ruolo iconico dello Spiritello Porcello, ma sembra essere imbolsito in un’interpretazione che non aggiunge nulla di nuovo alla precedente. Invece di evolvere o approfondire il suo personaggio, lo si vede girare in tondo, come se fosse rimasto intrappolato nello stesso copione che lo ha reso famoso anni orsono.

Manca di quella freschezza e originalità che ci si aspetterebbe da un sequel, la cui posticcia messa in scena invece non si adatta ai giorni nostri e rimane ancorata agli anni ’80. L’anacronismo di Beetlejuice, carattere attorno cui dovrebbe ruotare l’intera pellicola, è la prima cosa che salta all’occhio dal momento della sua comparsa. Le sue battute, forzate e poco ispirate, stridono con la modernità che lo circonda.

 

Beetlejuice

 

Capisco che nell’Aldilà la percezione del tempo sia diversa rispetto al mondo dei vivi e che, addirittura, la concezione stessa del tempo non esista, ma questo Beetlejuice non ha mosso un passo in più di trent’anni. Il mondo intorno cambia, tutti subiscono una evoluzione (molti involvono, a dirla tutta) tranne lui che si ritrova a riproporre battute che sarebbero state ficcanti in un altro decennio, ma non oggi.

Davvero il babyjuice che rosicchia le gambe di Lydia dovrebbe farmi scompisciare dalle risate? C’è qualcuno a cui la trovata dello sbudellamento fuori campo abbia fatto ridere? Mi assicurate che nel 2024 le battute ammiccanti sul sesso siano ancora divertenti? 

 

Baby Beetlejuice

 

Beetlejuice era tornato nella fossa nel 1988 e vi doveva rimanere perché un sequel del genere non ha portato a nulla di buono, ma sembra esclusivamente la classica marchetta per far soldi e lanciare nuove e vecchie glorie sul grande schermo; non voglio anticipare i tempi, parlerò più avanti del GRANDE apporto nella pellicola dei personaggi interpretati da Monica Bellucci e Jenna Ortega.

Nonostante abbia visto il film due volte, ancora non riesco a capire il motivo per cui Beetlejuice si sia ritrovato invischiato nelle vicende della famiglia Deetz. Nel primo capitolo si spacciava per il bio-esorcista che liberava le case “infestate” dai vivi per far “vivere” in pace le anime che lì dimoravano. In questo secondo, il suo nobilissimo lavoro va letteralmente al diavolo perché, in realtà, Beetlejuice è solo un espediente per raccontarci storie di cui importa poco, perdendo così la sua iconicità.

La moglie vendicativa, l’esaurimento nervoso misto a follia dilagante delle due Deetz, le paturnie adolescenziali miste a intellettualismo feroce di Astrid, il tutto condito con un contorno di spiriti investigatori, giovani killer desiderosi di tornare in carne e ossa, insulsi manager da sposare e defunti mangiati da pesci che, pace all’anima loro, se la sono cavata meglio di noi che eravamo in sala a cercare di mettere assieme le fila di questo gran potpourri che è stato il sequel di Beetlejuice.

 

Richard

 

Sentite nell’aria cosa non va? Un’esagerata accozzaglia di storyline che ha usato Beetlejuice come specchietto per le allodole, senza che lui fosse neanche il protagonista. Mi si potrebbe obiettare che non lo fosse nemmeno nel primo e appoggerei l’obiezione, se non fosse che la trama del precedente film si presentasse molto più lineare, semplice e genuina, invece che confusionaria e raffazzonata.

Cosa resta del Beetlejuice con cui siamo cresciuti? Nulla. Cosa resterà del Beetlejuice dei giorni nostri? Una lunghissima ed estenuante esibizione canora in giacca e cravatta color cremisi durante la finale wedding scene, in cui, sulle note di MacArthur Park di Richard Harris, occhi attenti possono intravedere Mercoledì ballare. Dunque, passiamo al secondo grande problema del film.

 

 

Pensavo fosse amore, invece era Mercoledì

Prima di parlare del personaggio di Astrid, interpretato da Jenna Ortega, è bene sapere che il grande pubblico l’ha conosciuta con Mercoledì, serie ideata dallo stesso Tim Burton che ci aveva promesso il grande ritorno del goth di cui è stato il maestro, ma ci ha intrappolati in un Addams’ crime del 2024.

Non voglio esser dura con la serie tv perché capisco che alle nuove generazioni, prive di un prodotto del genere, possa esser piaciuta. Quando ero adolescente c’era Sabrina – Vita da strega, una ragazza semplice che assieme al suo gatto Salem sapeva muovere risate con la sua genuinità; c’era Buffy l’Ammazzavampiri, che sventava gli attacchi del Male provenienti dalla voragine infernale sotto la biblioteca dove finiva in punizione con i suoi migliori amici.

Nonostante le trame delle serie con cui sono cresciuta ora facciano ridere e non sembrino più valide argomentazioni, mi vedo costretta a smontare Mercoledì per un solo, principale, motivo: la spocchia che hanno stampato in faccia a Jenna Ortega e da cui sembra non vogliano liberarla, come conferma Beetlejuice Beetlejuice. Agli sceneggiatori di questi prodotti vorrei dire che si può essere anticonformisti e simbolo di ribellione giovanile anche sorridendo, di tanto in tanto. Che rivedessero Jules et Jim (François Truffaut, 1962).

 

Mercoledì

 

Nella pellicola, infatti, la Ortega interpreta (male) un’adolescente in pieno conflitto con la madre perché “hey mamma, vedi i morti di ogni dove e ogni quando, ma non riesci a vedere papà?” che è morto in un incidente in mare e che ritroveremo allo sportello accettazione anime dell’Aldilà più avanti. Badate bene a questo dettaglio perché ci torneremo.

Astrid passa gran parte del film a lanciare occhiatacce risentite, pronunciare battute prese dall’aforismario del momento e ricordarci quanto sia importante per i giovani studiare e leggere per poi dimenticarsene completamente e farsi infinocchiare da un giovane (ma attraente) spirito omicida che vuole scambiare l’anima con la sua per tornare tra i vivi. E tanti cari saluti a Dostoevskij.

 

Astrid Deetz

 

La generosità latente che albergava silenziosa nel suo animo imbronciato ora si fa largo. Si scende nell’Aldilà e ci si imbarca sul Soul Train anni ’70, che sa tanto di espediente per agganciare un pubblico che aveva apprezzato il primo Beetlejuice e, familiare a certe sonorità disco, avrà certamente capito il riferimento linguistico tra il titolo del brano e il fatto che quello sia il treno su cui si muovono le anime. Il Soul Train, per l’appunto. Sfido le nuove generazioni, senza offesa per nessuno, a perdersi nei meandri delle connessioni musico-filologiche.

Quando tutto sembra perduto, (purtroppo) arriva mamma Lydia a salvare capra e cavoli con l’aiuto di Beetlejuice, a cui si è promessa in sposa pur di riportare la figlia con sé tra i vivi. Le due si ricongiungono, prendono a viaggiare per luoghi spettrali, Astrid incontra il principe azzurro, mette su famiglia e vissero (forse) tutti felici e contenti. Da Beetlejuice che flirtava con Barbara Maitland a colpi di bacino, siamo finiti nel paese degli Unicorni senza nemmeno accorgercene.

 

 

Monica Bellucci: the (new) Corpse Bride?

Monica Bellucci è Delores, la defunta ex moglie di Beetlejuice i cui pezzi si ricompongono sulle note di Tragedy dei Bee Gees. Nel corso della vicenda la scopriamo esser stata uccisa e seppellita dallo Spiritello Porcello dopo che questo fu da lei avvelenato, la prima notte di nozze. Con un plot twist che ha dell’incredibile scopriamo infatti che Delores è una specie di Mangia Anime e, tornata in “non” vita, inizia a dare la caccia all’ex e a “svuotare” tutti quelli che incontra sul suo cammino.

Primo fra tutti, un Danny De Vito a caso, che interpreta l’inserviente sbadato che fa cadere le casse in cui si trovano i pezzi della sposa, la quale dunque, pinzatrice alla mano, può ricomporsi; poi il proprietario di una lavanderia che non ha idea di chi possa essere Beetlejuice, ma… a Delores serviva un abito da sposa da tingere di nero con la magia “Dellamorte Dellamore” e dare inizio a una serie di entrate a effetto con tanto di phonate tra i capelli perché lei è cattiva, lei è la badass della pellicola.

 

 

Spoiler: no. Viene rispedita nell’Aldilà dal vermone della sabbia, che non ha nulla a che fare con lo Shai-Hulud di Dune, assieme a Rory. E chi è Rory? Un personaggio che quanto a fastidio supererebbe Delores e Astrid, se solo avesse un minimo di spessore in più. Come Beetlejuice in questo frizzantissimo sequel, anche io voglio cantare completamente a caso e dedicargli un pezzo che i sorcini più affezionati riconosceranno subito:

“Lui chi è?
Come mai l’hai portato con te?
Il suo ruolo mi spieghi qual è?”

È il nuovo compagno di Lydia, agente del programma televisivo per cui sfrutta il dono di vedere i morti e metterli in contatto con i cari ancora in vita. Rory la ama, vuole sposarla, essere una figura di riferimento per la povera Astrid, colmare quel vuoto che la dipartita del padre di famiglia ha lasciato…  altro spoiler: no, vuole solo sfruttare il potere di Lydia e farne carne da macello in televisione. Non è un caso che Rory e Delores facciano la stessa fine: sono inutili e non portano a nulla nello sviluppo della trama. Sono dei riempitivi noiosi.

 

Lydia e Rory

 

Delia Deetz e Wolf Jackson: due facce della stessa macchietta

Delia è uno dei personaggi peggio scritti della pellicola non tanto perché i motivi delle sue stramberie non sono noti o giustificati, quanto per l’estremizzazione dell’artista radical chic che va a rappresentare. Anche lei, come Beetlejuice, è chiusa in un ruolo macchiettistico che non ha nulla a che vedere con il personaggio originario.

Delia era una scultrice di classe e con gran gusto, una donna di polso e tutta d’un pezzo tanto che, durante il famoso incantesimo del Banana boat, quando ballava e cantava posseduta, gli astanti si meravigliavano davanti a tanta scompostezza. Nel sequel non fa altro che urlare e frignare per la dipartita del marito (che sicuramente ha contribuito a diffondere il seme della follia in lei) e darsi a strani rituali di ricongiungimento con gli spiriti badando di essere a favore di camera per ottenere visualizzazioni. Trapassa avvelenata dagli aspidi che aveva giurato sarebbero stati innocui. Una prece.

 

Delia Deetz

 

Com’è possibile dimenticarsi che un attore del calibro di Willem Dafoe faccia parte del cast di un film come questo? Semplice: abituatevi a vederlo lavorare con registi come Lars Von Trier o Lanthimos e, fidatevi, la sua performance in Beetlejuice Beetlejuice sarà presto rimossa per la vostra sanità mentale.

Interpreta un defunto investigatore, un tempo stella dei b-movie e ora impegnato a far luce sul caso Delores-Beetlejuice che, quanto a mossette e frasi a effetto, fa invidia alla squadra Ginew di Dragon Ball durante il loro ballo di ingresso, non apportando nulla di particolarmente arguto alla narrazione. Perché fregiarsi così di un gran nome del Red Carpet? Mi rifiuto di credere ancora per vile danaro o per portare gente in sala perché Tim Burton non ha bisogno di ricorrere a tali mezzucci.

Che Dafoe alterni grandi ruoli a parti più sottotono non è strano, ma vederlo ridotto a scimmiottare come in questa pellicola è stato abbastanza fastidioso. Aveva decisamente più dignità il suo Goblin nello Spider-man di Sami Raimi. Per vederlo tornare a ricoprire ruoli di un certo spessore, non ci resta che aspettare l’uscita del Nosferatu di Robert Eggers il primo Gennaio del nuovo anno.

 

Wolf Jackson e Bob

 

Nessuno tocchi Day-o

Dopo l’eccidio operato su cast e sceneggiatura, mi tocca passare alla colonna sonora. Laddove il primo rimaneva impresso per le due più famose canzoni di Harry Belafonte impiantate su scene divertenti, inaspettate e, per questo, giocate su espressioni stranite, il secondo lancia una quantità di canzoni ingente, molte delle quali avulse dal contesto e così lunghe da sospendere fin troppo l’incredulità dello spettatore. 

Ma la cosa peggiore che questa pellicola ha osato musicalmente fare è stata creare una nuova, oltraggiosa, versione di quel capolavoro che era Banana Boat nel primo film. Qui la vediamo eseguita dal coro dell’Antoniano al funerale di Charles Deetz, in modo assolutamente magistrale, ma privata del carisma e del trasporto che la scena originaria le aveva conferito. Perché? Per strizzare l’occhio al fan di vecchia data e fargli dire “Guarda come citano bene”. No, si chiama fanservice fatto male.

 

 

Non tutto è perduto

Anche la peggiore pellicola degli ultimi mesi nasconde qualcosa di vagamente bello e mi riferisco, in particolare, a due personaggi di vecchia data, uno dei quali poco conosciuto all’epoca del primo film e che, in questo secondo capitolo, ha vissuto il suo momento di gloria, divenendo immediatamente oggetto di merchandise. Sto parlando di Bob, il gigante dalla testa minuscola, e Lydia Deetz che da gotica ragazza in guerra con il mondo si è trasformata in una donna comprensiva e paziente, pronta a sposare il repellente Beetlejuice pur di salvare i suoi cari.

 

Meno male che c’è Bob

“Bob interpreta Bob”, queste le parole con cui hanno presentato il più fedele collaboratore di Beetlejuice, durante la campagna pubblicitaria. Ma chi è Bob? Non lo sappiamo, certamente è il personaggio migliore di tutta l’opera, prima di tutto perché non parla, in secondo luogo perché ha continuamente gli occhi smarriti e terrorizzati da quanto accada intorno. E ne ha ben donde.

Molto probabilmente Burton lo ha recuperato dal film originale, perché alla fine di Beetlejuice del 1988, nella sala d’attesa dell’Aldilà, vedevamo questo fantasma dal corpo a grandezza naturale e la testa piccolissima seduto accanto al protagonista, che subiva lo stesso trattamento da uno spirito cannibale che gli spolverizzava addosso un incantesimo miniaturizzante.

 

Beetlejuice e Bob

 

Probabilmente è stato quello il momento in cui si sono conosciuti e hanno iniziato a collaborare, nonostante resti senza risposta una domanda: come mai la testa di Beetlejuice è tornata normale e quella di Bob no? Tuttavia, queste restano delle supposizioni anche perché nell’ufficio in cui lavora, rassegnato alle bizzarrie del suo principale, ce ne sono molti altri come lui, dunque non abbiamo una risposta effettiva sulla sua natura e genesi.

E che bellezza vedere i tanti Bob correre per il mondo dei vivi in preda al panico, dopo che un’esplosione ha aperto un varco tra le due realtà. Ammetto che quella scena mi ha fatto molto ridere. Non è un caso che proprio Bob sia diventato il personaggio più iconico del sequel, tanto da essere già in vendita la sua versione in abito giallo Bobblehead della Funko Pop!.

 

Bob Bobble Head Figure

 

Wynona Rider è sempre una garanzia

Ora parliamo di Lydia, stella oscura che brilla in siffatto delirio. È l’unico personaggio che è stato risparmiato dal dumb washing effettuato dalla sceneggiatura di questo seguito, che, ci tengo a precisare, è stata affidata ad Alfred Gough e Miles Millar che avevano già lavorato assieme a Mercoledì.

Ebbene, Lydia era una ragazza introversa in possesso di quel grande dono che le aveva permesso di vedere e conoscere gli spiriti dei Maitland, non compresa da una famiglia presa da se stessa e dall’apparenza. Crescendo, scopriamo che quel dono ha iniziato a sfruttarlo per sfondare nel mondo dello spettacolo, non senza una punta di repulsione perché realmente intenzionata ad aiutare gli spiriti inquieti, piuttosto che lucrare sulle debolezze dei vivi desiderosi di contattare gli estinti.

Si mostra come una donna sensibile che ha bisogno di qualcuno al suo fianco. Soprattutto dopo la perdita del marito Richard e l’incrinarsi del rapporto con la figlia Astrid che quasi non vede e sente e, per questa debolezza del tutto umana, è pronta a lanciarsi tra le braccia del fantoccio Rory, nonostante gli avvertimenti diretti e non sulla sua poca affidabilità.

 

Lydia Deetz

 

Tuttavia è attenta a ciò che accade alla sua famiglia, è vicina alla matrigna in lutto, alla figlia alle prese con i primi drammi amorosi da cui la salverà, rischiando il matrimonio con Beetlejuice. Il suo personaggio subisce una bella evoluzione, tanto da essere l’unico a operare scelte sensate mosse da una logica, a differenza del resto della famiglia, allargata e non.

Diventa quasi difficile parlarne perché è impeccabile, a dimostrazione che i presupposti per sviluppare una trama degna di tale nome c’erano tutti, ma sono stati messi in secondo piano per cercare di colpire e sorprendere il pubblico con…  la spettacolarità degli effetti? No, con la CGI posticcia molto si è perso nella resa grafica; con l’originalità della narrazione? Nemmeno, questo film si è dimostrato un Mercoledì all’ennesima potenza che nulla ha aggiunto al precedente.

 

Vermi della sabbia

 

Dolcetto o scherzetto?

Arrivati al termine di questa faticosa disamina, sono costretta a confrontare ulteriormente le due opere, partendo dal presupposto che il primo Beetlejuice fosse un capolavoro di genialità, umorismo cupo e creatività. Tim Burton ha saputo catturare un’atmosfera unica e irripetibile, ma nel tentativo di riproporre la magia quasi trent’anni dopo, il sequel si è completamente perso. La trama è confusa, i personaggi sono piatti e privi di spessore e l’umorismo, che una volta ci faceva ridere, ora sembra forzato e scontato.

Il regista ha tentato di richiamare il tono bizzarro e le atmosfere del primo film, ma spesso si è attorcigliato in sequenze poco incisive e in scelte visive che sembrano più un omaggio che un’evoluzione creativa. I personaggi, che una volta brillavano per le loro eccentricità, qui appaiono poco sviluppati, con una recitazione che non riesce a farli rivivere pienamente.

Beetlejuice Beetlejuice è un’opera che tenta di rivisitare un classico, ma che finisce per non possedere l’anima e la freschezza del suo predecessore, lasciando il pubblico con un senso di nostalgia malinconica piuttosto che di gioia. Un vero peccato per un universo così ricco e affascinante.

 

Tim Burton

 

L’aspetto più frustrante è proprio la mancanza di vera originalità. Beetlejuice Beetlejuice sembra un collage di idee già viste, una serie di citazioni all’originale senza il fascino e quella creatività che rendevano la pellicola del 1988 così speciale. Sì, ci sono momenti vagamente divertenti, ma non bastano a coprire le difficoltà evidenti di un copione debole e di una regia poco ispirata. 

Questo secondo episodio è un’occasione sprecata, un brutto tentativo di rivitalizzare un classico che, purtroppo, non riesce a emergere dalla sua stessa ombra. Se volete rivivere la magia dell’originale, rivedetevi quello e risparmiatevi questa delusione, perché Beetlejuice 2 rappresenta tutto ciò che non dovrebbe essere il cinema: una mera operazione di marketing che tradisce una bella eredità cinematografica.

Cosa abbiamo ottenuto? Un’opera che sembra più un insulto all’originale che una vera continuazione della storia iconica. Cosa abbiamo capito? Personalmente, una piccola soddisfazione la porto a casa, ovvero aver compreso il motivo per cui, l’ei fu papà Richard non si manifestasse a Lydia: era finito allo sportello accettazioni dell’Aldilà a smistare cadaveri con dei pesciolini che gli sbattevano in faccia per l’eternità, completamente in grazia del Demonio. Perché mai tornare a mescolarsi con quel disastro che è la famiglia Deetz? Dal canto mio e a quelle condizioni, la firma per il lavoro da impiegato a vita l’avrei messa a occhi chiusi…

 

 

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