L’articolo su Gli Anelli del Potere, serie tv distribuita da Amazon Prime Video, e appena conclusasi con la seconda stagione, necessita di una premessa. Quando ha esordito due anni fa, non mi aveva convinto, nonostante l’abbia guardata come una serie tv epic-fantasy libera dal confronto con la materia letteraria, in cui si muovono e si incrociano i destini di elfi, orchi, stregoni e oscuri signori del male.
Infatti, i motivi per cui non mi ha convinto affondano le radici in elementi che esulano dagli scritti di Tolkien, in primis la caratterizzazione di alcuni personaggi e determinate scelte narrative, ma quando è stata annunciata la seconda stagione, in onda dal 29 Agosto allo scorso 3 Ottobre, le prime immagini e trailer mi hanno fatto ben sperare sin da subito.
Con un notevole cambio di atmosfera, ho intravisto il Male prendere forma e, carica di speranza e curiosità, le ho dato una seconda possibilità, perché sono dell’avviso che non ci si debba fermare ai primi tentennamenti mai, ma guardare, fare le proprie osservazioni e, solamente alla fine, esprimere un’opinione. Il risultato di tale ostinazione è stato che, terminata la seconda stagione, mi sono addirittura ricreduta sulla precedente.
Con pregi e difetti, la seconda stagione de Gli Anelli del Potere mi ha fatto conoscere nuovi punti di vista e mi ha spinta a recuperare alcune letture che non avevo ancora affrontato e questo è il più grande risultato che si possa ottenere da un prodotto mediatico.
Ho avuto la conferma che non bisogna mai dare nulla per scontato o bocciare qualcosa a prescindere; nel passaggio dalla carta alla pellicola, è inevitabile che qualcosa si perda e tanto si comprima, per ovvie esigenze narrative. Spesso dimentichiamo che questo è successo anche con Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, oggi osannato come capolavoro di genere. Lungi da me dire il contrario, ma i film e le serie tv romanzano, adattano e rispondono alle esigenze di una ampia fascia di pubblico e chi vuole conoscere davvero Tolkien deve cercarlo tra le pagine scritte di suo pugno.
Un autore va sviscerato in ogni sua opera, conosciuto attraverso le lettere, le parole dei saggisti che lo hanno studiato e mediante la lettura di quei romanzi da cui lo stesso ha tratto ispirazione. E, anche dopo un lavoro del genere, non si smetterà mai di scoprire nuove sfaccettature nella sua poetica. Questa è la magia della Letteratura.
L’articolo contiene SPOILER.
Indice
ToggleAdar e il Tolkien non detto
Adar è uno dei personaggi creati ex novo dagli showrunner della serie e ha visto l’avvicendarsi di due attori: Joseph Mowle, già visto in Game of Thrones nei panni di Benjen Stark, e Sam Hazeldine. Per motivi non ben specificati, Mowle ha deciso di abbandonare le riprese alla fine della prima stagione.
“Ho amato il tempo trascorso esplorando la Terra di Mezzo e scavando a fondo nella mitologia di Tolkien. Sono onorato che il mio personaggio sia piaciuto, per lui era importantissimo raccontarvi la sua storia. Come attore, però, rimane un mio desiderio quello di esplorare nuovi personaggi e nuovi mondi […]”
Il testimone è passato a un attore dai tratti meno spigolosi, ma con gli occhi malinconici di chi, pur essendo dalla parte del Male, ha nobili intenti. Padre degli Uruk, nel confronto con Arondir prima, Galadriel dopo, dice di essere uno dei tredici Elfi corrotti anzitempo dal Signore Oscuro e di aver dimorato nel Beleriand. Aveva un nome un tempo, divenuto poi insignificante perché donato, invece che guadagnato come quello di Adar.
Il suo ruolo è quello di guidare gli Uruk verso la libertà e svincolarli dal giogo di Sauron, a cui si è ribellato nei primissimi minuti della seconda stagione. Dopo averlo ucciso con la sua stessa corona, Adar raccoglie attorno a sé gli orchi superstiti per cui sviluppa un preciso programma politico che ha, come obiettivo, la liberazione dai ceppi e dalle catene. Parte di tale disegno era stato esposto già nella sesta puntata della prima stagione e vale la pena riportarlo per intero.
“Figli miei, noi abbiamo sofferto molto, abbiamo dismesso i nostri ceppi, attraversato montagne, campi, gelo e maggesi fino ad avere i piedi insanguinati dagli Ered Mithrin a Efel Arnen. Abbiamo sofferto eppure stanotte una nuova prova ci attende. Il nostro nemico sarà debole e scarso di numero. Tuttavia alcuni cadranno, ma per la prima cadrete non come schiavi anonimi in terre lontane, ma come fratelli e sorelle in casa nostra. Allunghiamo la mano di ferro degli Uruk e stringiamo il pugno su queste terre.”
La sua figura, per come è stata sviluppata nel corso della seconda stagione della serie, ha destato non poche critiche. Egli si mostra, infatti, legato visceralmente alle sue creature che sono, per la prima volta, umanizzate e fotografate in momenti intimamente familiari. Questa particolare lettura che si è fatta del nemico per antonomasia non deve indignare o stranire perché, che gli orchi potessero riprodursi sessualmente, lo scrive Tolkien nel capitolo III de Il Silmarillion, Della venuta degli elfi e della cattività di Melkor:
“Gli Orchi infatti prendevano vita e si moltiplicavano nello stesso modo dei Figli di Ilúvatar”
Spiegare il motivo per cui l’Uruk di quella scena tanto criticata protegga la sua famiglia, diventa più semplice ma, se ancora dovessimo faticare nel ritenere un orco capace di amare un suo simile, potremmo motivarlo come istinto di conservazione. Nel momento in cui una creatura viene al mondo, inizia la personale lotta per la vita che, se vinta, volge poi alla perpetrazione della specie. In termini più razionali, dunque, l’Uruk protegge i suoi simili per conservare la specie.
Non è tutto perché, dalle pagine de Il Signore degli Anelli – Le due torri, Messer Samwise e le sue decisioni, emerge un altro dato circa la natura degli orchi. La battuta “Quei Nazgûl mi fanno venire i brividi. Ti strappano di mano il corpo senza nemmeno guardarti, e ti lasciano fuori nel freddo e nel buio” ne mette in risalto la paura, uno degli stati emotivi più radicati negli esseri viventi che, in quanto tale, rende umani. E che essi fossero creature di Dio, Tolkien lo scrive nella Lettera 153, indirizzata al direttore della libreria Newman, Peter Hastings:
“[…] perfino gli Orchi diventerebbero parte del Mondo, che è di Dio e quindi in definitiva buono […] ho rappresentato gli Orchi come esseri reali pre-esistenti, sui quali l’Oscuro Signore abbia esercitato tutto il suo potere per rimodellarli e corromperli, non per crearli”
Questo apre un altro dibattito su quanto sia labile il confine tra Bene e Male e quanto i due concetti siano, in realtà, estremamente relativi. Scomoderò Luigi Pirandello che, del relativismo, ha fatto lo snodo centrale della sua poetica. Il Bene e il Male sono, prima di tutto, concetti che sono stati letteralmente inculcati da una generazione all’altra per creare una società ordinata e disciplinata ma, se dovessimo fermarci a pensare intrinsecamente a cosa siano, sarebbe difficile darne una definizione assoluta.
Ogni idea va relativizzata al contesto come aveva già anticipato (pur inconsapevolmente) Victor Hugo nel 1862 con Les Misérables: se Jean Valjean non avesse avuto la necessità di sopravvivere in un paese in rivolta in cui la frangia più povera della società ne pagava le spese, non avrebbe rubato quel tocco di pane che gli costò la prigionia, la perdita dell’identità e la maturazione della vendetta.
Chi è il reo? Il ladro o il governo che avrebbe dovuto garantire il diritto alla vita del cittadino? La percezione dell’altro e delle situazioni non è immutabile e oggettiva, ma cambia da un individuo a un altro, da una prospettiva all’altra. Gli Anelli del Potere, a un’attenta osservazione, permette di ragionare a 360 gradi anche sulle grandi domande su cui l’uomo si interroga da sempre.
Il destino a cui Adar va incontro apre la porta a un’altra importante questione e rende manifesto un lato dell’essere umano che vale la pena approfondire: ritrovata per un istante la sua bellissima forma elfica grazie al potere taumaturgico dell’anello di Galadriel, comprende che quella versione di se stesso era una sorta di menzogna, vita infusa dall’alto da qualcuno e che solo Adar è il nome che si è guadagnato.
Intenzionato a scendere a patti con Galadriel pur di vedere realizzato il suo ideale di libertà dall’asservimento al Male che, nel frattempo, si abbatte sull’Eregion prendendo forma, ne paga lo scotto giacché muore pugnalato dai suoi stessi figli; questi si sono fatti irretire da Sauron, probabilmente perché il libero arbitrio e quell’indipendenza offerta da Adar spaventava maggiormente rispetto alla prospettiva di un tiranno che avrebbe scelto per loro.
La sua morte rappresenta la fine di ogni residuo di umanità presente negli Uruk che, d’ora in avanti, saranno pedine sulla scacchiera di Sauron, ingranaggi di una macchina che deve coordinarsi nel movimento per funzionare e adempiere al loro compito, in un’ottica che assume connotazioni sia industriali, sia capitalistiche.
Sulla sua vera identità aleggia il mistero perché la serie ha disseminato la sua figura di indizi particolari, primo fra tutti il suo braccio infermo e la mano guantata, come se le sua carne fosse corrotta nel profondo. L’articolista e speaker di Radio Brea, Pierluigi Cuccitto, sulle pagine di Sentieri Tolkieniani avanza l’ipotesi che possa trattarsi di Maglor, l’ultimo figlio di Fëanor che si lasciò convincere dal fratello Maehdros a sottrarre i Silmaril ai Valar.
Questi bruciano di un calore che corrode fin nelle viscere e, considerato che Tolkien non ha mai specificato il destino di Maglor, Gli Anelli del Potere potrebbe averne decretato uno nella misteriosa, quanto affascinante, figura di Adar. Ad accreditare tali origini, potrebbe anche essere il saluto con cui si rivolge a Galadriel alla fine del quarto episodio quando usa la forma arcaica “elenn thíla (invece che síla) lumenn’ omentielvo” per salutarla.
Tale traslazione linguistica è quella adottata dai Noldor di Fëanor che si riteneva unico erede di Finwe, in opposizione alle famiglie di Fingolfin e Finarfin. Quasi certamente, la serie non tornerà a indagarne le origini, ma colpisce la cura nei confronti del dettaglio e trova conferma quanto gli sceneggiatori abbiano attinto con precisione dai testi.
Da Halbrand a Sauron, passando per Celebrimbor
Il Male ha tante forme, tanti nomi e non è mai assoluto, neanche quando si chiama Sauron. Nella serie lo abbiamo conosciuto come Halbrand prima (la forma umana che Sauron assume dopo essere stato ucciso da Adar, che cerca di irretire Galadriel e farne la sua regina) e lo abbiamo visto emergere nel finale della seconda stagione come Sauron, che si mostrerà nella sua completezza negli episodi che verranno.
Il punto di congiunzione tra le due forme è Annatar, uno dei personaggi più affascinanti del Legendarium tolkieniano che è indissolubilmente legato a Lord Celebrimbor, uno dei caratteri che ha vissuto la migliore evoluzione durante entrambe le stagioni della serie tv e che non ha nulla da invidiare al corrispettivo cartaceo.
Genio e ordine quasi mai vanno d’accordo e Tolkien ha lasciato una quantità innumerevole di manoscritti in cui ha approfondito personaggi ed eventi o, addirittura, ha fornito altre versioni degli stessi. Il figlio Christopher, come sappiamo, si è posto l’obiettivo di dar voce alle penna del padre, dunque ha speso una vita a raccogliere e ordinare quanto non fosse stato pubblicato. Il risultato è la serie di Racconti Incompiuti e la immensa History of the Middle Earth. Gran parte dei fatti narrati dalla serie si trovano, sparsi, in questi libri e nel Silmarillion.
Nonostante il lavoro di recupero, a Tolkien non è bastata una vita per delineare meglio un personaggio del calibro di Celebrimbor, erede di una profonda conoscenza dell’arte della forgiatura, lasciando alla nostra mente l’incarico di prefigurarcelo meglio. La serie, che piaccia o meno, ne ha delineato un percorso evolutivo emozionante e carico di dramma. Charles Edwards ha saputo dare spessore al personaggio e gli sceneggiatori sono stati in grado di farci empatizzare con lui e la difficile, seppur comprensibile, posizione in cui si è trovato.
Se da un lato splende la luce, dall’altro ne rifulge una più opaca in via di definizione: Annatar. Egli è Signore dei Doni e riformatore, colui che, davanti alla desolazione del mondo sopraggiunta dopo la sconfitta di Morgoth, incolpò i Valar di essersi dimenticati della Terra di Mezzo e cercò di irretire gli Elfi che avrebbero potuto renderla splendente come Eressëa o Valinor. Si mescolò tra di loro, fu in Eregion che mise in atto il suo piano e diffuse la sua conoscenza. Sauron, infatti, è il Maia di Aulë abile nella forgiatura e sarà con la sua abilità che a Ost-in-Edhil saranno forgiati gli Anelli del Potere.
“Tre anelli ai re degli Elfi sotto il cielo che risplende,
Sette ai principi dei Nani nelle loro rocche di pietra,
Nove agli Uomini Mortali che la triste morte attende […]” (Il Silmarillion, Bompiani 2017)
Tale opera è possibile solo grazie alla maestria di Celebrimbor, il più facile da soggiogare facendo leva sulle sue origini. Egli è figlio di Curufin e nipote di Fëanor Spirito di Fuoco; nelle sue vene scorre l’arte della forgiatura e il desiderio di eguagliare il nonno, artefice dei Silmaril. Ed è questo il motivo per cui, quando Halbrand giunge in Eregion e chiede di essere ricevuto da lui, negli occhi del Noldor si vede la scintilla di chi può tornare a lavorare a qualcosa di grande.
Celebrimbor non può sapere chi si nasconda dietro il volto di Halbrand e il giovane può, quindi, giocare con la sua mente e suggellare una collaborazione volta alla creazione di altri anelli, manifestandosi come l’angelico emissario dei Valar, in una scena che, per potenza, ricorda la maestosità del Giudizio Universale di Michelangelo. Completamente assoggettato, Celebrimbor andrà incontro a un orribile destino, torturato e ucciso da un Annatar in lacrime che si appresta a divenire Sauron.
Bene, quella lacrima significa tante cose. Potrebbe essere la dimostrazione che il Bene esista anche in chi, convenzionalmente, dovrebbe rappresentare il Male, se considerassimo la già citata Lettera 153, dove Tolkien scrive che
“[…] in origine Sauron non era “malvagio”. Egli era uno “spirito” corrotto dal primo Oscuro Signore […] all’inizio della Seconda Era aveva ancora un aspetto bello e non era in effetti completamente malvagio; a meno che non siano completamente malvagi tutti i riformatori che vogliono affrettare la “ricostruzione” e la “riorganizzazione” anche prima che l’orgoglio e la sete di potere li divorino”
Ma, quando tali assunti vengono soddisfatti, subentra il piacere del Male. Mariano Bianca, nel Saggio sul Male del 1991, ne delinea antropologicamente forme e distinzioni legate alle diverse sfaccettature dell’uomo, tra cui la soddisfazione nel recare dolore. Esso ha una duplice natura, perché da un lato procura un danno in chi lo subisce, dall’altro
“[…] genera una soddisfazione e un piacere in chi lo compie, per questo viene ricercato. La soddisfazione ottenuta dalle azioni malefiche rafforza la tensione del male. […] Il danno provocato ad altri rafforza il proprio sé, e quindi, il proprio senso di potenza e onnipotenza”
Ecco, dunque, spiegata più nel profondo quella lacrima. Dopo aver impalato Celebrimbor, Annatar abbandona qualsiasi retaggio “umano” e diventa Sauron a tutti gli effetti, piange per quella mutazione che ha necessitato di una spropositata violenza, perché sa di aver superato il punto di non ritorno e perché forse teme, in cuor suo, che le parole di Celebrimbor agonizzante possano realizzarsi; cioè essere distrutto e consumato dalla bramosia del potere che non risparmia nessuno, nemmeno lui, il Signore degli Anelli.
Forse, ancora, piange perché non è riuscito a piegarlo al suo volere e ottenere da lui i nove Anelli per sottomettere gli Uomini e, dunque, si è visto costretto a scagliarvi contro ira e frustrazione? Le risposte potrebbero essere tante, ma si può esser d’accordo sul fatto che questa stagione abbia reso potenti le interpretazioni dei personaggi e dato molta importanza al non detto.
Il riscatto di Galadriel
Per me, Galadriel è stata sempre l’anello debole della serie tv, soprattutto nella prima stagione. Se dovessi trovare dei difetti, direi che Gli Anelli del Potere tende a reiterare alcuni atteggiamenti e caricarli di eccessivo patetismo (inteso come “situazione, episodio, atteggiamento che suscita un sentimento di malinconica commozione, di mestizia, di compassione”). Ho sempre percepito Galadriel come estremamente ostinata e ostile.
Nel corso della seconda stagione qualcosa è cambiato ed è stata una grande sorpresa rivalutare il suo personaggio e averne compreso le motivazioni alla base delle sue azioni nella stagione precedente.
Quando Gil-Galad scopre la vera identità di Halbrand per bocca di una Galadriel lacerata dal dolore e dall’onta di essere stata tratta in inganno dal nemico, l’apertura alla comprensione del Re Supremo dei Noldor la distende notevolmente e le fa capire di non essere più sola nella battaglia che aveva intrapreso e che l’aveva allontanata da tutti, perfino dai più cari affetti come Elrond.
Da quel momento, ho guardato a lei con altri occhi e vi ho ritrovato, puntata dopo puntata, quello che il Dizionario dell’Universo di J.R.R. Tolkien riassume bene:
“[…] uno specchio immacolato ed infrangibile, che costringe chi la contempla a riflettersi nella propria pochezza, nella propria corruttibilità, nella propria fragilità”
Ha dismesso l’armatura per vestire di bianco e infondere coraggio a chi, non avendo più nulla da perdere, sarebbe stato pronto a gettare la propria vita nella battaglia, perché Galadriel si è dimostrata, nelle ultime due puntate “prodiga di doni che portano il segno della sua purezza […] che ingentilisce in amor cortese”. Ditemi se tale scrittura non parli di Tolkien e non si agganci alla Galadriel a noi più familiare tratteggiata da Peter Jackson.
Confusione nel Rhûn: meno male che c’è Tom
Purtroppo, questa è la linea narrativa più debole della serie, in particolare, della seconda stagione. Siamo diretti nel Rhûn, la regione più a est della Terra di Mezzo, che pare essere sotto il gioco di un misterioso capo dei culti orientali al cui servizio troviamo uomini mascherati, per celare una sorta di malattia della carne che sembra consumarli.
Nel finale di stagione scopriamo che lo Stregone Oscuro è il deus ex machina che lo Straniero venuto dalle stelle deve incontrare per comprendere quale sia il suo ruolo, nella misura in cui l’espressione richiami il suo significato originale, libero da qualsiasi accezione negativa, di “divinità che scende da una macchina per sciogliere l’intreccio critico della trama” (rappresentato proprio dall’identità del misterioso viandante giunto da una meteora).
Lo Stregone, però, da solo non basta, perché c’è bisogno dell’aiuto di altri due personaggi che gli facciano comprendere di non essere strumento del Male e che sviluppino in lui il senso dell’amicizia: Nori e Tom Bombadil.
Gli showrunner avevano già recuperato una delle tre razze in cui gli Hobbit sono divisi nel corso della prima stagione, i Pelopiedi. Ne Il Signore degli Anelli e con qualche rimando ai Racconti Incompiuti, Tolkien ne parla ampiamente come di popolazioni che, all’epoca della grande migrazione, giunsero nell’Eriador, dove fondarono numerose colonie e impararono a parlare l’Ovestron dai numenoreani che lì dimoravano.
Nella serie, Elanor Brandipiede è la Pelopiede che accompagna lo Straniero durante il viaggio che li condurrà nel Rhûn, dove incontreranno un altro gruppo di proto-Hobbit, gli Sturoi, e si troveranno ad affrontare molti pericoli, il peggiore dei quali è rappresentato proprio dall’Oscuro Stregone, la cui identità resta avvolta nel mistero.
Stando a quanto ci viene detto, potrebbe trattarsi di uno dei due Stregoni Blu che, nel XII volume della History of the Middle Earth di Tolkien, sarebbero giunti nella Terra di Mezzo nel 1600 della Seconda Era. Gli Istari che arrivarono furono cinque: Curunír il Bianco (o Saruman per gli Uomini), seguito da Mithrandir il Grigio (Gandalf) e Radagast il Bruno. Infine, due Blu, Alatar e Pallando. Nei Racconti Incompiuti si leggono maggiori dettagli circa il loro ruolo.
Dopo un’adunanza dei Valar convocata da Manwë, si decise di inviare tre emissari che sarebbero dovuti essere potenti come Sauron, ma che avrebbero dovuto
“…dimenticare la potenza e vestirsi di carne in modo da trattare con Elfi e Uomini e guadagnarsene la fiducia”.
Curunír fu scelto da Aulë e, per compiacere la sua sposa Yavanna, portò con se Aiwendil (Radagast), Alatar fu scelto da Oromë e prese come compagno Pallando. Mithrandir restò nell’ombra non sentendosi all’altezza del compito, ma non per questo gli fu detto di non partire. Dal Silmarillion sappiamo anche che Curunír frequentava gli Uomini ed era esperto nell’arte dell’eloquenza e nella metallurgia; Radagast era amico di tutti gli animali e di tutti gli uccelli.
Ne Gli Anelli del Potere appare strano che, per come ce lo hanno presentato, lo Stregone possa incarnare Radagast, un po’ perché non era uno dei prescelti, ma “semplice” compagno di Curunír, un po’ per la mite inclinazione che lo caratterizza, lontana da quella di chi mette a rischio la vita della comunità Hobbit pur di raggiungere il suo scopo. Più plausibile possa trattarsi di Alatar e che si possa, in futuro, incontrare anche il suo compagno; una soluzione del genere permetterebbe alla serie di continuare a esplorare nuovi personaggi.
Ulteriore spinta affinché Gandalf cominciasse ad aver fiducia in se stesso e ritrovasse il suo bastone, è stata data da un personaggio che neanche Peter Jackson ha osato portare in scena, un po’ per non complicare lo sviluppo della sua trilogia, un po’ per timore di portare sul grande schermo qualcuno che nemmeno Tolkien stesso ha definito con precisione.
Ovviamente, mi riferisco al Tom Bombadil che la serie tv ha reso, a mio avviso, alla perfezione. Lo trovo estremamente fedele ai testi e alle rappresentazioni iconografiche a cui siamo stati abituati, con il suo cappello, la barba rossa scarmigliata e quel volto che alla giovialità mescola un’antica e misteriosa sapienza. Gli sceneggiatori hanno saputo tratteggiarlo non come indifferente al destino della Terra di Mezzo, ma partecipe alla sua maniera.
Come un novello Socrate che davanti al fanciullo attua il criterio della maieutica, sollecita lo Straniero nella ricerca della verità, infondendo coraggio laddove regna la sfiducia e la paura di non essere all’altezza di un compito non del tutto chiaro.
Dal momento in cui Tom Bombadil fa la sua comparsa ne Gli Anelli del Potere, i romanzi di Tolkien prendono forma, in particolare sotto due punti di vista. Il primo riguarda il dialogo che intrattiene con lo Straniero quando questi giunge nella sua dimora e sente la voce di una donna provenire da una stanza adiacente: il gioco di parole sulla sua identità riprende un passo de Il Signore degli Anelli – La Compagnia dell’Anello, precisamente una parte del capitolo Nella casa di Tom Bombadil:
“Graziosa Dama!”, disse dopo qualche attimo Frodo. “Perdona, se la mia domanda ti sembrerà stolta, ma potresti dirmi chi è Tom Bombadil?” “È lui”, rispose Baccador, interrompendo i suoi agili movimenti per sorridergli. Frodo la guardò perplesso. “È lui, come avete visto”, ella disse in risposta al suo sguardo, “È lui il Messere di bosco, acqua e collina”.
Il secondo riguarda la medesima scena, filtrata attraverso una lente più soggettiva. Quando nella serie Tom Bombadil cela l’identità di Baccador, ho avuto la stessa sensazione provata leggendo Le avventure di Tom Bombadil e cioè che lui volesse tenerla nascosta per preservarla come un qualcosa di sacro e immacolato perché, ciò che emerge da alcuni versi delle poesie affonda le radici nella sacralità del loro amore.
“[…] e mentre la coppia dormiva
sul cuscino, alla finestra l’Uomo-Salice bussava; […]
Tom Bombadil non badò nè al bussare,
ai colpi ed alle danze, a tutto quel rumore,
ma dormì fino all’alba e poi prese a cantare
come storno: “Cara dol, bella dol, amore!” […]”
Adattamenti ai testi e interpretazioni personali a parte, anche in questo caso la serie tv è stata coraggiosa perché mai nessuno, a parte Chraniteli, miniserie su Il Signore degli Anelli russa del 1991, diretta da Natalja Serebrjakova, aveva osato mostrare sia lui che Baccador. Ce la faranno vedere nelle prossime stagioni? Dal canto mio, non ne sento l’esigenza e preferirei rimanesse la Figlia del Fiume da cercare nei libri.
La CGI e quelle ali di fumo
Se c’è un aspetto su cui nessuno può obiettare è l’uso che il comparto tecnico ha fatto della CGI. In un mio precedente articolo su Christopher Nolan, affrontavo il discorso legato alla computer grafica che, spesso e volentieri, allontana dalla realtà rendendo posticci gli effetti speciali, motivo per cui il regista inglese preferisce limitare nell’utilizzo, ma la prima stagione de Gli Anelli del Potere ci aveva regalato panoramiche meravigliose su Valinor e Númenor.
Il formato utilizzato è stato il 2,39:1, molto più panoramico rispetto al tradizionale 16:9 usato per le produzioni televisive, e aveva collocato la serie tv nella direzione della cinematografia. Juan Antonio Bayona, regista dei primi due episodi della prima stagione, aveva spiegato come si stessero concentrando sulla pre-visualizzazione e sul controllo del movimento.
La prima crea virtualmente una scena prima che venga filmata, attraverso un rendering digitale senza la camera che mostri il risultato finale; il secondo riprende due volte la stessa configurazione del frame con personaggi diversi che saranno poi combinati in un unico frame tramite effetti speciali. Addirittura, dal momento che il controllo del movimento prevede il ricorso alla camera fissa e visto che a interagire erano personaggi dalle diverse stature, si era arrivati a usare una telecamera portatile ad hoc, in grado di seguire i movimenti dell’operatore e permettendo, in un secondo momento, di applicare la sovrapposizione in post-produzione.
Mantenendo un livello tecnico sempre di altissima qualità, siamo arrivati a godere di uno spettacolo grafico dalla portata indescrivibile con il Balrog che sferra il colpo mortale ai danni dell’impavido Durin III le cui ali di fumo di jacksoniana memoria e le braci che lo infiammano, accompagnate da una colonna sonora quanto mai epica, sembrano di poter essere toccate.
Con questi presupposti, non ci resta che aspettare l’Akallabêth, ovvero la distruzione e il conseguente inabissamento dell’isola di Númenor, di cui nel Silmarillion se ne legge la portata:
“[…] e onde simili a montagne che muovevano con grandi crinali di neve increspata le elevarono su, su tra gli sfilacci di nuvole, e dopo molti giorni le scagliarono sui lidi della Terra di Mezzo. […] i mari invasero le terre, i litorali sprofondarono, antiche isole furono subissate, nuove isole si sollevarono; e i monti si sbriciolarono, i fiumi scorsero per nuovi letti”
Aspettiamo con pazienza di vedere abbattersi la catastrofe sugli uomini di Pharazôn e suo figlio Kemen che guardano l’orizzonte oltre i mari occidentali e ammirano la torre bianca di Eressëa, l’isola al largo di Valinor, posta lì come monito per il loro popolo e per rammentare quello che non saranno mai: immortali ed eterni.
“Credo che gli Elfi l’abbiano piazzata lì di proposito così che ogni tramonto serva a rammentare che i nostri giorni devono finire. E i loro invece no. Che non importa quanto in alto noi arriviamo, alcune cose saranno sempre sottratte alla nostra presa, sempre”
Con queste parole, nella quinta puntata della seconda stagione, prende forma con maggiore spessore quella frattura che porterà l’isola alla guerra civile e al definitivo decadimento, a causa della corruzione e dell’avidità del re che tiene stretto tra le mani uno scettro che non gli appartiene.
Le tediose (ma necessarie?) romance
Non mi dilungherò sulle romance, è una parte della serie che ho trovato debole e forzata, ma alcune precisazioni vorrei farle. I baci che abbiamo visto sono stati tre: quello tra Poppi Grandesprezzo e Merimac, Isildur ed Estrid e tra Galadriel ed Elrond. Gli Anelli del Potere è una serie destinata al grande pubblico che è eterogeneo e deve, quindi, soddisfare il palato di diversi spettatori.
Questi “incidenti di percorso” spesso sono dei riempitivi, ma hanno anche il compito di stemperare la tensione che cresce e che, in questa seconda stagione è stata davvero tanta. E poi, Tolkien amava di un amore forte e delicato e nelle sue opere c’era spazio per i sentimenti. Ce lo ha dimostrato con la storia di Beren e Lúthien, ripresa dalla canzone di Aragorn che canta di quando
“[…] ai suoi piedi spuntarono i fiori,
Ei non desiderò altro che starle accanto,
Poterla accompagnare nel ballo e nel canto
Sull’erba fresca dai mille colori”
Nell’analizzare i baci della stagione, partirei dal più discusso che ha generato un’ondata di indignazione spropositata ed è il bacio meno bacio della storia del cinema e della televisione.
Non spiegherò la dinamica e il motivo per cui Elrond arrivi a poggiare le sue labbra chiuse su quelle ancora più serrate di una Galadriel in catene perché chi ha visto la puntata sa. Non c’è stata alcuna erotizzazione in quel gesto, nonostante tra i due scorra un sentimento forte come l’amicizia che è una forma di amore, ma non è passione legata alla sfera sessuale.
Quanto al bacio tra la Pelopiede Poppi e lo Sturoe Merimac, l’ho trovato fuori luogo perché ha smorzato la tensione in aumento. A livello narrativo, se costruisci un climax ascendente, bisogna spingere sempre più fino a che non arrivi al punto in cui, necessariamente, debba esplodere; quel bacio, dal mio punto di vista, ha scaricato di troppo il dramma.
Inoltre, mi è sembrato un modo per tenerci agganciati alla parte più debole della stagione che rischiavamo addirittura di dimenticare.
Per quanto concerne Isildur, ammetto di essere un po’ perplessa perché, per come ce lo stanno facendo conoscere, in lui non riesco ancora a vedere l’animo ardimentoso e intrepido che lo porterà a fondare Gondor. Facciamo un passo indietro e capiamo di chi stiamo parlando.
Primogenito di Elendil l’Alto che porta nel suo nome il quenya Isil (Luna), appartiene alla nobile stirpe numenoreana e si batterà per difendere i Fedeli ai Valar e agli Elfi, di cui Miriel è la rappresentante. Davanti all’arroganza di Ar-Pharazôn ormai soggiogato da Sauron e temendo volesse abbattere Nimloth, l’Albero Bianco di Númenor, ne spiccherà furtivamente un frutto, sarà ferito quasi a morte e lo consegnerà al nonno Amandil.
Questi lo pianterà e, quando metterà la prima foglia, Isildur si riavrà completamente dalle ferite. Incalzato da Pharazôn, fuggirà a sud verso la foce dell’Anduin dove, con il fratello Anarion, si insedierà a Osgiliath, futura capitale del regno di Gondor. Questo è quanto narrato da Tolkien ed è quello che vedremo nelle prossime stagioni. Per ora, abbiamo conosciuto un ragazzo immaturo, ma non per questo insensibile (si veda il rapporto di fiducia che è nato tra lui e Theo) che deve ancora percorrere una lunga strada.
Gli sceneggiatori de Gli Anelli del Potere hanno dimostrato di essere in grado di tracciare bene l’evoluzione dei personaggi, prendendosi il loro tempo, come richiede una serie tv. Per questioni di sviluppo della trama, anche Isildur vivrà il suo cambiamento, ma per farlo è necessario affrontare le tempeste. Il suo personaggio ricorda molto il Frédéric Moreau de L’Éducation sentimentale, histoire d’un jeune homme di Gustave Flaubert del 1869
Nel romanzo, il giovane ambizioso deve scalare la piramide sociale per diventare qualcuno e affermarsi tra la gente che conta. Il viaggio di formazione, a seconda dell’obiettivo, implica l’ascesa e la caduta, mettere in gioco se stessi, prendere quanto più possibile dagli altri per comprendere la realtà che si vive e nella quale si vuole avere successo. Nel percorso è previsto l’incontro e lo scontro con l’amore, spesso non ricambiato, che forgia e ridisegna parte di noi.
Isildur conosce i primi turbamenti dell’animo, non solo determinati dalla guerra e dalle calamità, ma anche dall’amore che non può (per ora) essere ricambiato. Il rifiuto gli dà delle priorità e il suo vero viaggio ora può cominciare per terminare nell’ascesa di un grande uomo e, come ben sappiamo, nella sua caduta.
Gli Anelli del Potere e il MeltingPot
Vorrei non dover trattare tale argomento perché nel 2024 mi pare strano spiegare perché nel cast ci siano attori di diverse nazionalità. Ormai siamo intrisi di “mescolanza” e la storia insegna che realtà chiuse a autarchiche non hanno portato a nulla di buono, men che meno alla crescita della specie umana. Il crogiolo, come lo hanno definito gli americani, è alla base dell’evoluzione dei caratteri e alla formazione dell’individuo.
Nell’incontro con il “diverso” trova luogo la nascita delle idee, laddove ci si dovrebbe chiedere: “diverso da chi?”. Purtroppo, siamo vittime consapevoli di una visione caucasica centrica, ma se spostassimo la carta del mondo da un lato o dall’altro, ci renderemmo conto che tutto è il centro di tutto. Ancora una volta, è la prospettiva con cui si guarda alle cose che fa la differenza.
Il concetto di MeltingPot è stato teorizzato da chi, più di chiunque altro, può arrogarsi il diritto di parlare di multi etnicità. La Treccani riporta la definizione del termine con parole che racchiudono quanto espresso finora:
“Amalgama eterogeneo di gruppi, individui e religioni, molto diversificati tra loro per ceto, condizione, appartenenza etnica, che convivono entro la stessa area territoriale geografica e politica. Riferita inizialmente alla società americana, l’espressione («crogiolo») è usata per indicare un particolare modello o ideale di società multietnica in cui dopo un certo tempo, segnato dal succedersi delle generazioni, le culture e le identità specifiche degli immigrati sarebbero destinate a fondersi con quelle dei paesi di accoglienza”
Secondo Carlo Rubbia, Professore di Fisica e ricercatore al CERN, “[…] esso è un importante mutante biologico, una inevitabile tappa nell’evoluzione” le cui conseguenze si ripercuotono sull’individuo e sulla comunità tutta e non devono generare paura perché la globalizzazione crea una società positivamente competitiva in cui gli individui mettono in atto strategie per migliorare la qualità dei risultati da ottenere. Senza perdere la propria identità che è sinonimo di esistenza, come formulava Cartesio con il suo “cogito ergo sum”.
Il cinema ha accolto questa tendenza già da tempo ormai, rimescolato le carte, ridisegnato storie e riadattato personaggi in nome della parità. Dubito Tolkien si sarebbe indignato nel vedere un Elfo nero combattere accanto a un Elfo asiatico, figurarsi avvallare le minacce al cast solo per aver rivestito i panni di alcuni personaggi.
Bisognerebbe sempre discernere l’uomo dal ruolo che ricopre, soprattutto quando parliamo di prodotti mediatici perché dietro c’è un essere umano che è chiamato a prove attoriali non indifferenti per cui espone la propria persona, rischiando tanto.
Se recuperassimo umanità e sensibilità, forse ragioneremmo prima di aizzare carnefici contro chi svolge il suo lavoro e vuole essere rappresentativo di una categoria o un’etnia e inizieremmo a vivere in un mondo davvero migliore come quell’Arda immaginata da Tolkien, affastellata da innumerevoli razze e creature che, sconfitto il Male, vivono in armonia tra di loro.
Una serie tv top o flop?
È indubbio che la Gli Anelli del Potere abbia fatto notevoli passi in avanti, soprattutto nel caratterizzare meglio i personaggi e condurli verso il loro destino. Sicuramente il miglioramento è determinato anche dal nucleo centrale della seconda stagione che si è sviluppato in Eregion dove ha luogo una intensa battaglia combattuta con frecce, catapulte e macchinazioni mentali.
Non è una serie perfetta, ma sfido a trovarne una; a volte si fa fatica a capire quanto tempo sia intercorso tra un accadimento e l’altro, altre volte sembra che alcune cose accadano off screen. Adattare liberamente un romanzo o, come in questo caso, libri, appendici e approfondimenti sparsi che spesso si contraddicono tra loro, è un’operazione complicata sulla rielaborazione dei fatti e la compressione temporale di quanto narrato nel dettaglio.
Il mezzo audiovisivo non potrà mai essere fedele ai romanzi perché nasce sfruttando strumenti diversi che fanno leva su un altro tipo di fruizione. Inutile quindi comparare le due cose e urlare all’oltraggio se la serie si discosta dal libro. Meglio accettare eventuali deviazioni come soddisfacimento di determinati requisiti, soprattutto davanti a un’opera di intrattenimento come vuole essere Gli Anelli del Potere.
Gli Anelli del Potere è diventata la serie di punta della piattaforma streaming Prime Video di Amazon, con 764,7 milioni di minuti guardati durante i primi tre episodi di lancio e oltre un miliardo nei primi quattro episodi, da parte di chiunque: sostenitori, detrattori, curiosi mossi dalle innumerevoli critiche al prodotto che non si può dire non abbia avuto una certa risonanza sui social.
In attesa della terza stagione a cui stanno già lavorando gli showrunner JD Payne e Patrick McKay, potremmo provare a godere dei nuovi prodotti in arrivo come il tanto atteso Anime The war of Rohirrim, posticipato al primo gennaio 2025 e il lungometraggio La caccia a Gollum previsto per l’anno successivo.
Considerazioni finali
Non solo protagonisti
Questa è stata una stagione davvero piena di elementi da analizzare e alcuni li ho tralasciati. Non ho parlato di Gil-Galad e di quanto avrei voluto vederlo imbracciare Aeglos per più tempo, non mi sono nemmeno soffermata sul cambiamento di Elrond che, nel passaggio dalla prima alla seconda stagione, si spoglia di candore e ingenuità e indossa i panni del guerriero saggio e risoluto.
Non ho affrontato la maturazione del rapporto padre-figlio che rinsalda, seppur troppo tardi, quella Khazad-dûm scossa alle fondamenta dal Balrog e minata dall’arrivo dei sette Anelli destinati ai re dei Nani, una razza che, con la drammatica ascesa di Durin III, viene svincolata definitivamente dall’immaginario collettivo che ne aveva fatto personaggi al limite del macchiettistico.
Non ho parlato neanche dell’introduzione di nuovi personaggi come Círdan il Carpentiere e Narvi il cui nome fu impresso da Celebrimbor sulle Porte di Durin. Volti che torneranno e giocheranno un ruolo importante nello sviluppo della trama, in particolare Círdan che, seguendo gli scritti, dovrà riconoscere Gandalf come massimo fra gli Istari e consegnargli uno dei tre anelli degli Elfi, Narya.
Meriterebbe un approfondimento anche il bellissimo discorso tra l’Entessa e Arondir, con cui si recuperano delle creature che Jackson aveva solo menzionato, nonostante Tolkien ne avesse scritto e definito ormai “perdute”. E che dire del legame sempre più forte tra Mìriel ed Elendil, il più nobile d’animo di Númenor pronto a sacrificare se stesso per la legittima sovrana e per ciò che ella rappresenta?
Le prossime stagioni svilupperanno meglio le loro storie che in questa seconda sono state introdotte e hanno preso avvio, considerando che già la terza si concentrerà su Númenor e, probabilmente, allargherà lo spettro della battaglia di Sauron all’Eriador.
La colonna sonora e gli omaggi
In merito al comparto tecnico, non ho fatto riferimento alla musica che accompagna la narrazione, composta da Bear McCreary ed eseguita, tra i tanti, da Jens Kidman dei Meshuggah per “The Ballad of Damrod” e Benjamin Walker per il doloroso canto in elfico intitolato “Golden leaves”.
Tra le canzoni però, a tutti sarà capitato di cantare“Where the shadows lie” eseguita dalla cantautrice e pianista americana Fiona Apple oppure “Old Tom Bombadil”, interpretata da Rory Kinnear e Daniel Wayman, e ritrovarne i versi ne Il Signore degli Anelli.
Esulando dagli scritti, è la trilogia di Jackson ad essere il grande riferimento e pietra di paragone, nonostante un confronto non abbia ragion d’essere, trattandosi di prodotti differenti; uno è una pellicola di dodici ore circa, l’altro è una serie articolata in cinque stagione di cui ne abbiamo viste solo due. Uno attinge e rilegge un romanzo, l’altro deve fare ordine e legare eventi narrati in più libri, alcuni dei quali sono raccolte di estratti.
Nella serie tv, i rimandi al kolossal Il Signore degli Anelli sono tanti ed è chiaro che siano anche un modo per strizzare l’occhio al fan e tenerlo agganciato al prodotto. Oggi lo si definisce, in modo dispregiativo, fan service. Se la frusta del Balrog si avvinghia al piede di Durin III senza trascinarlo giù come accade a Gandalf, non è un problema; piuttosto che porre una critica fine a se stessa, meglio osservare cosa accada e come sia sviluppato il momento.
In genere, preferisco parlare di omaggi dietro cui si nasconde il riconoscimento di un capolavoro di genere che qui è ripreso, spesso, visivamente e narrativamente. Tanti di questi espedienti sono costruiti anche in modo particolare, come Tom Bombadil che, alla sua prima apparizione, canticchia a mo’ di filastrocca ciò che Barbalbero dice a Merry e Pipino nella trilogia jacksoniana.
Non si può imbandire un processo alla serie tv perché ha adattato un dialogo affidandolo a un personaggio diverso, specie se questo è del tutto in linea con il precedente; Tom Bombadil e Barbalbero vengono spesso paragonati in quanto entrambi antichi e legati alla natura. Non è neanche criticabile che lo stesso Bombadil dica spesso ciò che siamo abituati ad attribuire a Gandalf. Chi ha letto sa che tra i due c’era un legame particolare e quanto l’Essere più antico di Arda sia stato importante per lui.
Gli Anelli del Potere è una serie osannata da molti e criticata da tanti che farà ancora discutere, ma sono certa che, più andremo avanti con le stagioni, più saremo in grado di guardare al passato e trovare nuove spiegazioni e chiavi di lettura, fino a che il cerchio non sarà chiuso con l’Ultima Alleanza. È necessario, come al solito, aspettare con pazienza e accettare il fatto che si possa cambiare opinione su tutto. Sempre.
“Now let the song begin, let us sing together
Of sun, stars, moon and mist, rain and cloudy weather”