Il miglior David Lynch possibile in 3 mosse

A pochi giorni dal suo settantanovesimo compleanno, i giornali diffondono la notizia della morte di David Lynch, il regista che ha cambiato per sempre la cinematografia e il concetto di serialità. Lo scorso agosto gli era stato diagnosticato un enfisema che lo aveva allontanato dal cinema nonostante, secondo indiscrezioni del CEO di Netflix (quella stessa piattaforma che gli aveva cassato un precedente progetto), stesse pensando a una nuova serie tv. Chissà cosa ci avrebbe raccontato…

Come è già successo per Christopher Nolan, vi racconto qualcosa del regista, attraverso tre dei suoi più importanti film, secondo me, che hanno cambiato il modo di intendere la settima arte e sono, oggi, oggetto di studio.

Una vita da visionario e surrealista 

David Keith Lynch è stato un regista, sceneggiatore, produttore e artista statunitense, nato il 20 gennaio 1946 a Missoula, nel Montana. Ha potuto sviluppare uno spiccato senso di isolamento e di osservazione della realtà a causa dei frequenti spostamenti della famiglia per lavoro; il padre era impiegato presso il servizio forestale, sua madre, un’insegnante. Durante la sua giovinezza, crebbe in lui l’interesse per l’arte e il cinema, influenzato da film classici e da opere artistiche contemporanee.

Si iscrisse all’Academy of the Fine Arts in Pennsylvania e successivamente si trasferì a Philadelphia per studiare alla School of the Museum of Fine Arts. Negli anni ’60, iniziò a sperimentare con il cinema, realizzando cortometraggi come Six Men Getting Sick (1967), un’opera d’arte animata che rifletteva il suo interesse per il surrealismo. Il corto vinse il concorso e, circa l’ispirazione, Lynch dichiarò:

“È stato uno dei miei quadri. Non ricordo quale ma si trattava di un dipinto quasi completamente nero. C’era una figura che occupava il centro della tela. Quindi mentre stavo osservando la figura nel quadro ho avvertito un leggero spostamento d’aria e ho colto un piccolo movimento. E ho desiderato che il quadro fosse realmente in grado di muoversi, almeno per un po’”.

Bisognerà aspettare il 1977 per il suo primo vero capolavoro, il lungometraggio Eraserhead, oggi cult movie. Il film è una rappresentazione inquietante della paternità e dell’ansia, caratterizzato da un’atmosfera onirica e da effetti visivi che, per l’epoca, erano già innovativi. Nonostante passò in sordina all’uscita, ben presto il film guadagnò popolarità crescente nel circuito underground, con le sue “cose oscure e ingarbugliate”.

Le tematiche complesse e psicologiche divennero quasi un’ossessione per David Lynch che ebbe modo di approfondirne alcuni aspetti con il suo secondo film, The Elephant Man del 1980: basato sulla vita di John Merrick, evidenziò la capacità di trattare la fragilità umana con sensibilità e rispetto e ricevette un grande successo di critica, previa la candidatura a otto premi Oscar.

Il 1984 è l’anno della momentanea battuta d’arresto, perché David Lynch si trovò a gestire una materia che esulava dal suo campo di indagine e, nonostante oggi sia un film nostalgicamente apprezzato, il suo Dune, non ebbe il successo sperato e sarà spesso ricordato dallo stesso regista con immenso rammarico. Semmai ci siano stati dubbi sul talento di David Lynch con l’adattamento del romanzo di Frank Herbert (lavoro immenso e più idoneo a chi ha fatto dello sci-fi il suo punto forza, vedi Denis Villeneuve), questi saranno fugati con i capolavori che seguiranno dal 1986 in avanti.

Velluto blu (1986), Cuore selvaggio (1990), Palma d’Oro a Cannes, Strade perdute (1997) e Mulholland Drive (2001), che gli è valso una nomination agli Oscar come miglior regista, sono solo alcuni dei suoi capolavori, senza dimenticare la serie televisiva Twin Peaks, che divenne, nel 1990, un fenomeno culturale di massa. Questa univa elementi di mistero, soap opera e surrealismo; ha rivoluzionato la televisione, aprendo la strada a una narrazione più complessa e prettamente cinematografica.

A tal proposito, bisogna ricordare che Mullholland Drive, inizialmente fu pensato come serie tv ma, dal momento che il pilot non riscosse il successo sperato dall’emittente statunitense ABC, il regista dovette bloccare il progetto fino al fortuito investimento del distributore francese Canal Plus, per cui il progetto sarà convertito nel lungometraggio che conosciamo. Non è una novità che David Lynch abbia avuto spesso problemi con le case di produzione o il suo genio sia stato riconosciuto tardi: da Dune, a Twin Peaks, all’ultimo lavoro respinto, in tanti hanno osteggiato il suo lavoro.

Si è fatto regista, attore, sceneggiatore, produttore, montatore, compositore, direttore della fotografia e degli effetti visivi per sopperire a ogni problema e trasporre, fedelmente, ciò che la sua mente partoriva in effluvi di sogni e incubi e tradurre a parole e immagini i più oscuri meccanismi dell’inconscio, rimanendo, sempre, connesso al suo pubblico.

Il freak Joseph “The Elephant Man” Merrick

Diretto da David Lynch nel 1980, è interpretato da John Hurt, Antony Hopkins e Anne Bancroft.

La trama

Si tratta di un toccante dramma biografico che racconta la storia di Joseph Merrick, un uomo affetto da una rara malattia che gli ha deformato il corpo in modo così grave da renderlo simile a un elefante. A causa del suo aspetto, Merrick viene sfruttato come fenomeno da baraccone, esibito al pubblico come una curiosità.

La sua vita cambia radicalmente quando viene scoperto dal dottor Frederick Treves, un medico che lo sottrae a quella esistenza umiliante e miserabile e lo accoglie in ospedale. Treves è affascinato dalla gentilezza e dall’intelligenza di Merrick e si impegna a dargli una vita dignitosa. Tuttavia, la società vittoriana, pur affascinata dalla sua diversità, lo considera ancora un mostro.

I temi principali

The Elephant Man esplora il tema della diversità e dell’emarginazione nella sua forma più classica, attraverso il freak trattato con crudeltà dalla società vittoriana; Merrick è visto come un mostro, un’attrazione da circo e viene costantemente umiliato e sfruttato per il profitto. A far dar contraltare alla meschinità umana, l’atteggiamento del dottor Treves, che si distingue per la compassione e la cura con cui si occupa di Jhon. Sarà proprio lui ad aiutare il protagonista a scoprire la sua umanità interiore.

Nonostante le sue deformità, infatti, Merrick è un uomo intelligente e sensibile e la pellicola lo mostra combattere la sua lotta per mantenere viva quella dignità che il mondo cerca di negargli. In questa ricerca, un ruolo importante è svolto dallo spettatore che deve mostrarsi il più empatico possibile e comprendere un punto di vista diverso e lontano da se stesso.

Tecnicamente, è uno dei film più lineari del regista (quasi di stampo hollywoodiano) che ricorre ad alcuni espedienti dell’horror per la realizzazione: musiche inquietanti e minacce che incombono, ma “[…] è un horror innocuo, uno di quelli in cui la creatura è perseguitata non il persecutore”. Una volta scoperto, il volto di Merrick non sarà più celato per gettare l’orrore in faccia al pubblico e renderlo familiare.

Così facendo, si percorre la strada battuta da Mary Shelley con il suo Frankenstein (1818), con una sostanziale differenza: laddove la creatura mostrava una latente e genuina natura, Merrick la porta alla dilatazione totale, inciampando quasi nel melenso. Un tale cambiamento è ravvisabile anche nella dicotomia che si instaura tra il noto scienziato del romanzo e il dottor Treves, dal momento che mentre il primo si mostra cinico e incline al trionfo della scoperta su tutto, il secondo è molto più umano e sensibile.

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La seduzione veste Velluto blu

Scritto e diretto da David Lynch nel 1986, è interpretato da Kyle MacLachlan, Isabella Rossellini, Dennis Hopper e Laura Dern.

La trama

La storia ha inizio quando il giovane studente Jeffrey Beaumont, tornato nella sua città natale per assistere il padre malato, fa una macabra scoperta: un orecchio umano mozzato nascosto nell’erba. Incuriosito e turbato da questo ritrovamento, Jeffrey decide di indagare, trascinandosi in un vortice di eventi sempre più inquietanti.

Mentre cerca di svelare il mistero dell’orecchio, Jeffrey si imbatte in Dorothy Vallens, una sensuale cantante di night club, e nel suo tormentatore, Frank Booth, un individuo violento e perverso. La vita tranquilla e ordinaria di Jeffrey viene così sconvolta, mentre si trova coinvolto in un mondo di crimini, passioni proibite e ossessioni malsane.

I temi principali

Velluto blu esplora la coesistenza di luce e oscurità, innocenza e perversione. La tranquilla facciata di Beaumont nasconde un lato oscuro e corrotto, simboleggiato dalla relazione tra Dorothy e Frank. Questo è manifesto con il ruolo da spettatore che ricopre lo stesso Jeffrey, un voyeur che assiste a scene di violenza e perversione, risultandone sempre più affascinato. Con lui, diventiamo osservatori e scopriamo una fascinazione per la perversione abbastanza disturbante.

Già l’emblematico inizio del film (con il ritrovamento di un orecchio umano tra l’erba sulle note di una canzone anni ’50) resta impresso nella memoria e diventerà topos nella cinematografia di David Lynch, portata al suo massimo compimento con la serie tv I segreti di Twin Peaks assieme ai drappeggi rossi e alle partiture di Angelo Badalamenti, suo compositore di fiducia.

Chiaro come il regista indaghi a fondo la psiche umana, mettendo in scena i desideri repressi e le paure più recondite celate nell’inconscio, laddove sogni e incubi si fondono. In questo viaggio alla scoperta di se stessi, il protagonista diverrà parte attiva del gioco, perdendo completamente la sua innocenza e arrendendosi al lato oscuro della realtà.

Il film non è solo un punto fermo della storia del cinema, è anche la consacrazione sul grande schermo di Kyle MacLachlan che, dopo il flop del precedente Dune (link) nel 1984, ha firmato il suo sodalizio con un regista che ne ha scoperto il talento tra le pieghe. Inoltre, Velluto Blu ci ha regalato il miglior personaggio di sempre con Frank Booth, interpretato da Dennis Hopper. Leggenda vuole che quando Willem Dafoe era sul punto di firmare il contratto, Hopper si presentò al provino dicendo “Io devo interpretare Frank, perché io sono Frank”. Il resto è storia.

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Mullholland Drive e il nastro di Möbius

Scritto e diretto da David Lynch nel 2001, è interpretato da Naomi Watts, Laura Harring e Justin Theroux.

La trama

La pellicola si apre con un incidente automobilistico sulla celebre Mulholland Drive, da cui emerge una donna amnesica, Rita, che si rifugia nell’appartamento di Betty, un’aspirante attrice.

Mentre Betty cerca di aiutare Rita a ritrovare la memoria, le due donne si ritrovano immerse in un groviglio di sogni, incubi e realtà alternative. Intrecciandosi alle loro vite, troviamo un regista in crisi, un misterioso cowboy, un club notturno inquietante e una serie di personaggi ambigui che sembrano nascondere oscuri segreti.

La linea tra sogno e realtà si fa sempre più sottile, e il confine tra finzione e verità si dissolve. Man mano che la storia si sviluppa, si svelano tradimenti, ossessioni e un’atmosfera di crescente tensione. Il finale, aperto e ambiguo, lascia allo spettatore il compito di interpretare i numerosi enigmi e di decifrare il significato nascosto dell’intera vicenda.

I temi principali

Temi

Mulholland Drive è un film ricco di temi complessi e ambigui, che spaziano dalla natura illusoria del sogno americano alla fragilità dell’identità, dal potere dell’inconscio alla persuasività della menzogna. David Lynch esplora il lato oscuro di Hollywood, la fabbrica dei sogni che può trasformarsi in un incubo, dove le aspirazioni si infrangono contro la dura realtà e i desideri si trasformano in ossessioni. Il film è anche una riflessione sulla memoria, sulla sua natura fallace e sulla sua capacità di plasmare la nostra percezione della realtà.

Una delle caratteristiche fondanti del film è la sfida verso le convenzioni narrative del genere: richiede, infatti, la partecipazione attiva dello spettatore, chiamato a decodificare una fitta trama di simbolismi e di allusioni, squarciando l’atmosfera onirica e inquietante per giungere al discioglimento della verità. La colonna sonora è curata ancora da Angelo Badalamenti e contribuisce ad appesantire (del tutto positivamente per chi ama un certo tipo di sensazioni) il senso di straniamento e di mistero.

Naomi Watts e Laura Harring non sono mai state così intense, magnetiche e disinvolte nella manifestazione del piacere, tanto da essere personaggi indimenticabili persi tra il piano della realtà e del sogno, il che porta lo spettatore a perdere l’orientamento fra le mille interpretazioni e le diverse dimensioni in cui tutto è possibile. Questo è il motivo per cui, quando si parla di Mullholland Drive, si fa riferimento al nastro di Möbius (intuizione del critico Enrico Ghezzi).

In matematica, questo è una superficie con una sola faccia, che si ottiene unendo due estremità di una striscia di carta dopo mezzo giro di torsione; in questo modo, camminando sulla suddetta superficie, ci si troverà “sotto” il punto di partenza senza bucare la carta o sconfinare oltre il bordo. Nella letteratura cinematografica significa rivivere uno stesso episodio, ma a ruoli invertiti. Proprio come accade a Betty/Diane e a Rita/Camilla, che sconfinano nei rispettivi doppelgänger.

David Lynch, per giocare ulteriormente con la nostra razionalità (che necessita di una spiegazione sempre) e per aiutarci a risolvere il mistero intorno alla vicenda, ci pone alcune domande e ci fornisce indizi, presenti nelle edizioni americana e inglese del DVD di Mullholland Drive:

“1-Prestate particolare attenzione all’inizio del film. Almeno due indizi sono rivelati prima dei titoli di testa. 2-Fate attenzione alle apparizioni della lampada rossa. 3-Riuscite a sentire il titolo del film per cui Adam Kesher sta cercando l’attrice principale? È menzionato di nuovo? 4-Un incidente è un avvenimento terribile. Notate il luogo dell’incidente. 5-Chi dà una chiave? E perché? 6-Notate il vestito. Il posacenere. E la tazza. 7-Cosa si prova, si comprende e si ottiene al club Silencio? 8-Solo il talento ha aiutato Camilla? 9-Notate le circostanze in cui si vede l’uomo dietro il Winkies. 10-Dov’è la zia Ruth?”

Riuscite a camminare sul nastro senza perdervi? Diane sta vivendo in sogno la sua realtà alternativa? O ha stretto un patto con il diavolo e rivive una vicenda che, nella realtà, finisce in modo del tutto opposto? Tra le varie teorie, lo spettatore è libero di scegliere quella che più gli si confà ed è anche questa la forza del cinema di David Lynch.

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Non solo cinema: l’Arte e la musica

Oltre che regista a tutto tondo, David Lynch è stato un pittore prolifico e un musicista. Ha esposto le sue opere nelle gallerie di tutto il mondo a partire dal 2012, quando è stata organizzata un’esposizione dalla Tilton di New York e includeva dipinti, disegni, fotografie e opere multimediali con testi dai toni oscuri e violenti come Boy’s Night Out. L’opera ritrae due personaggi in lotta, uno armato di coltello e con denti affilati sporchi di sangue, l’altro con una maglia con su scritto casa del papà.

La sperimentazione visiva risale ai tempi del college, quando il regista decise di unirla alla ripresa video e trovò nel cortometraggio il mezzo idoneo per veicolare il messaggio. In tal modo, i suoi quadri hanno iniziato a prendere vita e infoltire una lunga produzione di corti che, dal 1966 (anno del succitato Six Men Getting Sick) al 2020, non si è mai fermata e ha spaziato tra diversi generi. David Lynch, infatti, ha toccato anche l’animazione con Dumbland del 2002.

Per approfondire questo aspetto, vi consiglio di vedere il documentario di Jon Nguyen, Rick Barnes e Olivia Neergaard-Holm, David Lynch – The Art Life, con cui il regista ci accompagna in un viaggio nel tempo, raccontandoci aneddoti sulla sua vita e la sua formazione. Iniziato durante le riprese di Inland Empire, gli ideatori del progetto lo hanno seguito nelle gallerie e nei laboratori fino a che, davanti a un’ingente mole di materiale, il documentario è passato sul sito di crowfunding kickstarter.

La somma da raggiungere, per continuare le riprese, era stata fissata a trentamila dollari ma, nel giro di due mesi, i fan hanno risposto con quasi duecento mila, dimostrando che Lynch è sempre stato apprezzato dal vasto pubblico che ha creduto nel suo talento e genio. Il sostegno e la nascita della figlia nel 2012 lo hanno convinto a rilasciare interviste, dopo un iniziale rifiuto, motivo per cui gli ideatori hanno raccolto più di venti conversazioni in cui il regista si è messo a nudo.

Quanto al suo legame con la musica, “ciò che può dire cose di natura intellettuale, ma può anche parlare al cuore in un modo senza parole che è così potente”, ha pubblicato diversi album a partire dal 1977, anno del debutto con il brano In Heaven, presente nel film Eraserhead e collaborato con artisti del calibro di Trent Reznor dei Nine Inch Nail o Marilyn Manson (nella fattispecie per Strade perdute).

Con più di sessanta brani e tre dischi (BlueBOB – 2001, Crazy Clown Time – 2011 e The Big Dream – 2013) ha esplorato sonorità che spaziano dal jazz all’elettronica, fino ad arrivare al rumorismo che vede la creazione di rumori ambientali da inserire nei film. Si è già detto quante competenze, che andassero oltre la mera regia, avesse, infatti a tal proposito, pretendeva di avere l’ultima parola nella supervisione del comparto sonoro delle sue pellicole. 

Queste non sono memorabili solo per le musiche, ma anche per i suoni più puri, naturali e colti nella loro essenza perché, per lui, era necessario “fare rumore per creare silenzio”.  

La voce di David Foster Wallace

Il compianto scrittore statunitense, nel suo Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), ci parla di un ulteriore David Lynch, avendo avuto modo di vederlo da vicino sul set di Strade perdute: accanito bevitore di caffè e completamente assorto nel suo lavoro. Le due cose sono bizzarramente collegate perché spesso doveva urinare, ma non poteva allontanarsi troppo dal set e dunque, la faceva fuori, un po’ dove capitava in mezzo alla sterpaglia.

Raggiungere i bagni nelle roulotte avrebbe significato perdere tempo e concentrazione; la troupe e il cast del film, ormai, non facevano più caso alle sue improvvise minzioni e, dopo la prima volta, nemmeno Wallace. Aneddoti a parte, lo scrittore si sofferma sull’accoglienza dei suoi prodotti da parte delle case di produzione, confermando quanto detto in precedenza: spesso il regista non ha avuto il pieno controllo del suo lavoro.

In particolare nel 1992, dopo “[…] la seconda, poco popolare serie di Twin Peaks, il fallimento di Fuoco cammina con me, e la bruttezza infinita di On the air che la ABC sottopose a eutanasia dopo sei settimane che già sembravano molto lunghe”, i critici rivalutarono i giudizi sul valore delle sue opere.

Dalla copertina del Time al “mancato controllo intellettuale del suo lavoro”, il passo fu davvero breve. In tanti si chiedevano se Strade perdute lo avrebbe riabilitato, ma Wallace ci pone davanti a un dubbio dalla facile risoluzione: a Lynch è mai importato davvero di rimettersi in sella? La risposta è NO.

Stiamo parlando di un uomo che, a venticinque anni dalla chiusura della sua serie di punta, ha scritto e diretto la terza stagione chiamandola Twin Peaks, con il pretesto di girare un film a puntate su ciò che voleva e che aveva ancora da dire per chiudere il cerchio e non rendere giustizia a Laura Palmer, perché una giustizia non può esserci davanti al male dilagante.

Ci si collega, così, alla violenza e ci si chiede se questa renda i suoi film malati. Ancora una volta, la risposta è NO. Wallace prende in esame il pulp di Quentin Tarantino (che molto deve a Lynch) e scrive che mentre al primo “interessa guardare un uomo a cui stanno tagliando un orecchio; a David Lynch interessa l’orecchio.  Se da un lato abbiamo la violenza manifesta nella sua essenza, dall’altro questa “tenta sempre di significare qualcosa” e viene demistificata ricorrendo al bizzarro e grottesco.

Più che di malattia (anche se il valore che si dà al sostantivo è assolutamente soggettivo e può essere tanto motivo di orgoglio quanto di imbarazzo), sarebbe il caso di parlare di perturbante, ciò “che si sviluppa quando una cosa viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo, cagionando generica angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità”; è ciò che accade con i film di Lynch perché lui ha una strana capacità di accedere all’inconscio.

Siamo noi spettatori ad amplificare o diluire i suoi messaggi, in base alla nostra predisposizione e apertura alla materia, rendendo i suoi film personali. Cosa significa? Che se Jeffrey di Velluto blu si eccita con il voyeurismo e la violenza e la cosa ci disturba, probabilmente Lynch ci sta facendo vedere parti recondite di noi che, solo razionalmente, tentiamo di celare e dimenticare. Siamo fatti di carne, ma costretti in gabbia.

L’influenza di David Lynch 

David Lynch, con la sua visione surreale e onirica della vita, ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama cinematografico. La sua capacità di creare atmosfere dense, personaggi enigmatici e trame labirintiche ha ispirato generazioni di registi, influenzando profondamente il cinema contemporaneo.

Un’estetica irripetibile

L’estetica lynchiana, caratterizzata da immagini evocative, luci soffuse e atmosfere inquietanti, è diventata un punto di riferimento per molti registi. La capacità di creare mondi onirici e surreali ha aperto le frontiere della narrazione cinematografica e non, influenzando diverse generazioni di registi, specializzati nel thriller psicologico, nel noir e nell’horror.

Il già citato Quantin Tarantino, Dario Argento e Guillermo del Toro hanno ammesso di essere stati influenzati da Lynch, in particolare per il ricorso a un tipo di atmosfera tesa e al simbolismo volti a inquietare e turbare il pubblico. Sulla serialità, poi, sen non ci fosse stato Twin Peaks, non avremmo avuto X-Files, Fringe, ma nemmeno serie tv come True Detective, Stranger Things e la meravigliosa Dark.

Quel suo linguaggio cinematografico

Oltre all’estetica, Lynch ha introdotto nel cinema nuove tecniche narrative e visive, come la narrazione frammentata da flashback, flashforward e sequenze oniriche che portano lo spettatore a ricostruire la storia come fosse un puzzle – di certo, il primo a giocare con la temporalità non è stato Christopher Nolan, per quanto eccella nel suo lavoro -; il simbolismo di cui prima che spinge a indagare i significati sottesi alla realtà e un uso sapiente (e consapevole) della musica che diventa parte integrante dell’esperienza cinematografica.

A cogliere la lezione del Maestro, in questo caso, è stato sicuramente Nicolas Winding Refn, il regista danese noto per film come Drive (2011) e Solo Dio perdona (2013), oltre che David Fincher, regista di Alien 3 (1992) e della serie tv Mindhunter, prodotti per cui la costruzione dei personaggi e la creazione delle atmosfere claustrofobiche alla Lynch sono state fondamentali a una peculiare caratterizzazione.

L’uomo passa, il genio resta

L’eredità di David Lynch è ancora oggi viva e pulsante, nonostante non possa più deliziarci, inquietarci e porci davanti a grandi dubbi ed enigmi sulla natura umana. Il cinema continua a rivisitare e analizzare i suoi capolavori, altri registi cercano di rileggerne le chiavi, il pubblico ama le sue pellicole. La sua risonanza non avrà mai fine perché ha dimostrato che il cinema può essere uno strumento potente per esplorare le profondità dell’animo umano e creare mondi immaginari che rispecchino la realtà, distorcendola quel poco che basta per spingerci al salto nel vuoto.