Tra un mese si terrà la 95° edizione dei Premi Oscar. Una cerimonia che negli anni ha gradualmente mostrato notevole fatica a evolversi, a nobilitare tutti gli aspetti dell’industria cinematografica, a guardare oltre il proprio orticello. Certo per gli amanti del grande schermo rimane un appuntamento fisso sul calendario, ma si è inevitabilmente svalutata agli occhi di molti cinefili, e per chi come il sottoscritto ama il cinema d’animazione è stata spesso motivo di disappunto e sconforto.
La scorsa edizione è stata monopolizzata dall’ormai celebre schiaffo di Will Smith, ma quella sera un altro ceffone, più subdolo ma non meno eclatante, è passato inosservato agli occhi del pubblico generalista. Mi riferisco allo schiaffo morale che l’Academy ha dato al settore dell’animazione, ed è il caso di dire che si è trattato solo dell’ultimo di una lunga serie.
Il fatto
Lo smacco in questione è avvenuto per l’appunto durante la premiazione, mentre si assegnava la statuetta per il miglior lungometraggio animato. Tre attrici salite sul palco per consegnare l’Oscar hanno inscenato una gag che ironizzava sui cartoni animati:
I film d’animazione costituiscono alcune delle nostre esperienze cinematografiche più formative da piccoli. Così tanti bambini guardano questi film ancora e ancora… e ancora e ancora e ancora e ancora. Penso che alcuni genitori là fuori sappiano esattamente di cosa stiamo parlando.
L’infelice battuta sul momento ha provocato più che altro risate a denti stretti, ma nei giorni seguenti il dissenso ha avuto ampio risalto e i commenti contrariati sono rimbalzati online da una parte all’altra. Centinaia di animatori e appassionati hanno reiterato il motto “L’animazione è per tutti” puntando l’indice contro il sistema hollywoodiano; tra gli altri si sono espressi con dei post lapidari anche registi del calibro di Lee Unkrich (Toy Story 3, Alla ricerca di Nemo, Coco) e Ralph Bakshi (Il Signore degli Anelli, Fuoco e ghiaccio).
Come portavoce di questo moto d’indignazione si sono fatti avanti i due filmmaker Phil Lord e Chris Miller – la cui ultima produzione I Mitchell contro le macchine era in lizza per il premio – che in quei giorni hanno anche pubblicato un editoriale su Variety in merito alla questione.
L’eco del dibattito si è diffusa anche a causa di una situazione molto delicata che l’industria dell’animazione sta attualmente vivendo. Da un anno a questa parte infatti la Animation Guild, storico sindacato di artisti, tecnici e sceneggiatori attivo negli Stati Uniti e in Canada, sta portando avanti una lenta battaglia sul fronte degli stipendi. La contesa riguarda l’evidente disparità di trattamento economico tra gli sceneggiatori di produzioni live-action e quelli di produzioni animate; la campagna è approdata anche sui social media, con professionisti del settore e patiti di animazione uniti dietro gli hashtag #PayAnimationWriters e #NewDeal4Animation.
Snobismo made in USA
Nell’articolo di Variety citato prima Lord e Miller hanno appoggiato le rivendicazioni del sindacato, sottolineando il riconoscimento dovuto ai tanti artisti e autori che lavorano assiduamente per anni alla realizzazione di una pellicola d’animazione. I due registi però hanno allargato il discorso sottolineando un problema ormai sistemico, un ambiente che negli anni ha avuto scarsissima considerazione per l’animazione, arrivando quasi a creare un clima di ostilità nei confronti di quest’arte.
Il duo ha ricordato che trent’anni fa il classico Disney La bella e la bestia era stato il primo – e per molti anni unico – titolo d’animazione a concorrere nella cinquina dell’Oscar per il miglior film. La creazione di una categoria apposita per queste opere l’anno seguente (la prima statuetta fu assegnata a Shrek, ne parlavamo qui), affermano Lord e Miller, sembrava quasi voler rassicurare i giurati dell’Academy che non ci sarebbe stato più il “rischio” di assegnare una statuetta così importante a titoli del genere. Non è un caso d’altronde che questi film siano raramente nominati in altre categorie quali miglior sceneggiatura, miglior regia, miglior fotografia, ecc.
Esempi di arretratezza manifesta da parte di queste giurie purtroppo si sono susseguiti in altre occasioni. La più clamorosa rimarrà quella dell’edizione 2015, serata che vide trionfare come miglior lungometraggio animato Big Hero 6, in un quintetto composto da How to Train Your Dragon 2, La canzone del mare, La storia della Principessa Splendente e The Boxtrolls.
Evidenziare la caratura artistica delle quattro pellicole sconfitte rispetto al vincitore sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, ma la vera beffa avveniva dietro le quinte. Un sondaggio condotto in quei giorni dall’Hollywood Reporter tra i giurati dell’Academy rivelò retroscena imbarazzanti: molti di loro non avevano neanche visionato tutte le pellicole in gara, altri avevano “delegato” il voto ai propri figli, infine altri ancora si erano rifiutati di votare film come quello di Isao Takahata (La storia della Principessa Splendente) o di Tomm Moore (La canzone del mare) perché si trattava, testuali parole, di “due fottute robe cinesi incomprensibili, che di certo non ha visto nessuno”; il fatto che i due film fossero rispettivamente di produzione giapponese e irlandese non fa che rendere più grottesca la vicenda.
Quella premiazione rese inconfutabile un altro fastidioso trend che ha segnato diverse annate. Se da una parte l’Oscar per i film d’animazione ha dato visibilità a tante pellicole che prima sarebbero state ignorate, dall’altra le produzioni hollywoodiane di alto profilo hanno monopolizzato la competizione. Delle 21 statuette assegnate finora da quando esiste la categoria, 15 sono andate a film targati Disney.
Per essere precisi la maggior parte è stata vinta dalla Pixar, studio di proprietà Disney ma che opera come una branca creativa indipendente. Cionondimeno è sempre la casa madre a giovare dei premi in quanto compagnia di produzione, e quando capitano edizioni come quella passata – con 3 titoli in gara su 5 candidati – Disney può già ipotecare il premio.
Tutto questo non fa che esplicitare l’atteggiamento smaccatamente elitario degli Academy Awards nei confronti di qualsiasi titolo di origine non statunitense. Se nel campo dei live-action la situazione sembra giunta finalmente a una svolta, con il trionfo da record del coreano Parasite, sul fronte dell’animazione siamo ancora molto lontani da reali progressi. Anche quando a vincere è un’opera basata su culture e folklore stranieri, la matrice è pur sempre quella di uno studio americano (come nel caso di Encanto, il classico disneyano premiato l’anno scorso).
#AnimationIsForEveryone
Tornando al punto di partenza, possiamo dire che l’attenzione attorno ai Premi Oscar ormai oscilli tra la curiosità verso nuovi potenziali scandali e gli altalenanti e goffi tentativi dell’organizzazione di rinvigorire o ringiovanire l’annuale celebrazione. L’ultimo di questi sforzi creativi ci ha regalato l’Oscar Fan Favorite, per il quale è stato premiato dai votanti su Twitter il film Army of the Dead: mentre lascio decidere a voi cosa sia più ridicolo tra la categoria e il titolo vincitore, auspico che già dalla prossima edizione abbiano cancellato questa roba per la vergogna.
Di fronte a tutto ciò, è lecito chiedersi se la manifestazione di punta del cinema mainstream sia finalmente arrivata a un punto di rottura, e se non sia il caso di rivedere una volta per tutte i principi che ne regolano il funzionamento. A cominciare da una rigida valutazione dei criteri per l’ammissione in giuria, evitando così che certi “esperti” abbiano altre possibilità di divulgare ignoranza e danneggiare ulteriormente questa industria.
Chiudo questa riflessione citando un altro cineasta che ha professato più volte il suo amore per l’animazione, dedicandogli molti sforzi nella sua carriera. Questo amore si percepisce in ogni fotogramma della sua ultima fatica, con la quale ha reinterpretato in stop-motion le avventure di un celebre burattino di legno. Proprio ieri sera quando ha ritirato un meritato Golden Globe, ha accettato il premio dicendo:
È stata un’annata grandiosa per il cinema. Cinema di tutte le dimensioni e ambizioni. Grandi scommesse, film intimi. Perciò è stato un grande anno per l’animazione, perché l’animazione è cinema. Non è un genere per bambini, è un medium.
(Guillermo Del Toro, regista di Pinocchio)