Era da molto tempo che un film orientale non faceva così discutere e infervorare il pubblico in Occidente. Il successo internazionale di Parasite e la sua reputazione crescente stanno scardinando le ultime reticenze sul cinema asiatico. Se sul piano mediatico questa diffusione ha dell’incredibile, sul piano strettamente artistico il pedigree dell’autore di questo film era già una garanzia granitica.
Nella percezione pubblica dell’opera si può parlare della rivelazione cinematografica del 2019, ma i film di Bong Joon-ho sono stati una continua conferma fin dal 2003; cioè dal suo secondo lungometraggio, Memorie di un assassino, che lo aveva fatto spiccare tra i talenti più promettenti del suo Paese. Da allora il suo lavoro si è imposto anche all’estero, tanto da farlo considerare uno dei migliori registi del 21° secolo.
Il nuovo volto del cinema coreano
Dopo aver conquistato Cannes e la Palma d’Oro la cavalcata di Parasite è stata inarrestabile, facendo incetta di premi un po’ ovunque. La popolarità dell’opera e del suo regista presso il pubblico mainstream stanno ampliando a dismisura la reputazione del cinema made in Korea; per mettere tutto in proporzione, basti pensare che il palmarès della pellicola è talmente colmo da fare impallidire persino un cult del calibro di Oldboy.
Non solo, Bong Joon-ho in questi mesi è stato ospite di talk show americani (nei quali sfoggia un lodevole inglese), e ha partecipato a conferenze e speciali trasmessi anche in rete. Infine, a coronamento di una stagione folgorante, Parasite è la prima pellicola coreana a essere candidata agli Oscar per miglior regia e miglior film.
Chi non ha ancora visto Parasite – se volete rimediare, questa edizione su disco è decisamente la migliore – troverà approfondimenti a profusione in rete, noi invece vogliamo darvi un piccolo assaggio dei migliori titoli che lo hanno preceduto. Quel tanto che basta per incuriosirvi a scoprire una delle filmografie più interessanti e stimolanti del cinema contemporaneo.
Memorie di un assassino (2003)
La maniera più semplice per descriverlo sarebbe “la risposta coreana a Zodiac“. Solo che il film di David Fincher è arrivato quattro anni dopo, e con tutta probabilità è stato anche influenzato dal lavoro di Bong Joon-ho. Quel che è certo è che entrambi si possono annoverare di diritto tra i thriller più affascinanti del nuovo millennio.
Ciò che distanzia Memorie di un assassino (finalmente disponibile in blu-ray anche in Italia) dalla concorrenza, risiede però in alcuni elementi attinenti ad una sensibilità tutta asiatica. Suona scontato dire che difficilmente trovereste queste caratteristiche in una produzione hollywoodiana, e di certo sarebbe più facile mostrarle che descriverle a parole. Il film ci pone davanti non solo a un modo diverso di intendere la narrativa thriller, ma anche a un evento reale a dir poco spiazzante nei suoi sviluppi.
La trama è basata sul primo caso accertato di omicidi seriali avvenuto in Corea, e sulle lunghissime e intricate indagini della polizia in una cittadina di periferia. Sebbene sia un adattamento dell’opera teatrale Come and See Me (Nal Borer Wayo, scritta dallo sceneggiatore del film Kim Kwang-rim), il lungometraggio ricalca in maniera attendibile il modus operandi delle forze dell’ordine locali.
A stupire di più è proprio quella che ci viene presentata come la quotidianità: la stupidità e la negligenza degli agenti, la brutalità dei detective nel perseguire potenziali sospettati e innocenti, le maniere a dir poco “rurali” nel gestire arresti e interrogatori. Tutti aspetti che enfatizzano l’incompetenza delle autorità e che più volte sfociano nel grottesco, facendo pensare a un copione assai romanzato. E invece no.
Sul piano strettamente visivo Memorie di un assassino rende ancora più stridenti queste esagerazioni, con una regia di stile quasi documentaristico. La Corea del Sud ci ha abituati negli anni a un cinema sanguigno, che non lesina inquadrature a effetto e pugni nello stomaco, ma Bong è in controtendenza. Ed è proprio per questo che, quando meno te lo aspetti, la notevole finezza con cui fa scivolare il film in toni e atmosfere diverse rende tutto più incisivo.
The host (2006)
Il titolo originale in coreano significa “mostro”. Con questo termine Bong Joon-ho mira a rappresentare diverse figure. The host si inserisce nel filone dei monster-movie che raccontano, attraverso la lente del fantastico, le mancanze e i fallimenti della società reale. Non è la prima opera a farlo, cionondimeno il modo in cui declina i tòpoi del genere per unire in sé politica e al tempo stesso drammi umani e familiari è intrigante.
The host narra di una creatura anfibia che un giorno emerge dal fiume che attraversa la città di Seoul, seminando il panico tra la popolazione. Le origini del mostro risalgono ad anni prima, quando da un obitorio un anatomopatologo americano fa disperdere in acqua centinaia di litri di formaldeide scaduta. Il primo attacco della creatura termina con il rapimento di una ragazza, e per la famiglia di lei inizia una disperata odissea.
Alcuni pregi di Memorie di un assassino sono qui riproposti. Anche se figura qualche personaggio per cui “tifare”, uno dei protagonisti è una figura con cui difficilmente si empatizza, e non certo perché scritto male. Il padre della ragazza rapita, interpretato da Song Kang-ho (attore feticcio di Bong), è uno sfaticato immaturo, che dopo il trauma vissuto riesce solo a piangersi addosso.
Non si trasforma certo in un eroe durante la pellicola, anzi diventa lui stesso vittima degli eventi, principalmente a causa della quarantena dichiarata dallo Stato. In questo frangente si inserisce un altro spunto dal precedente film, cioè la critica contro le autorità nella gestione delle crisi, che qui è fortissima. Non era difficile scadere in facili metafore, ma Bong non risparmia nessuno, militari, governanti, scienziati, coreani, americani.
Al cuore di The host vi è quindi la ricerca di unità di una famiglia disfunzionale, travolta doppiamente prima da una calamità sovrannaturale e poi dalle istituzioni. Se chiudete un occhio sulla computer grafica invecchiata maluccio (comunque ottima per questa produzione, e adeguatamente mascherata) vi godrete un atipico, strambo, intenso monster-movie.
Madre (2009)
Da non confondere con l’omonimo film di Darren Aronofsky, Madre di Bong Joon-ho rappresenta l’opera della maturazione. Protagonista è una vedova di mezza età con un figlio adolescente affetto da deficit mentale, la cui vita è stravolta quando lui è accusato di omicidio da prove apparentemente schiaccianti. La madre, contro tutto e tutti, comincerà una ricerca ossessiva della verità per tentare di scagionare il figlio.
Anche qui il soggetto non è certo originale, ma il percorso autoriale del regista traccia una linea di demarcazione, che fa brillare questa particolare storia. Una delle tematiche più care a Bong qui emerge prepotentemente, diventando il fulcro della sua poetica per i film a venire: le divisioni e gli scontri – morali e anche fisici – tra classi sociali.
Le vicissitudini sopportate dalla vedova Hye-ja, interpretata magistralmente dall’attrice Kim Hye-ja, esprimono in pieno questa riflessione. Se prima dell’arresto il ragazzo è già oggetto di scherno per il suo handicap, la tensione si acuisce quando la sua condanna diventa di pubblico dominio; questa spirale d’odio, generata tanto dai concittadini e dai media che dagli stessi parenti dello sfortunato Do-joon, irretisce inesorabilmente anche sua madre.
Hye-ja si fa carico della sua disperazione e della sua rabbia, e intraprende un percorso tortuoso che farà scoprire allo spettatore un personaggio ricco di sfumature e contrasti. La fotografia crepuscolare che pervade la pellicola accentua la malinconia di questa figura solitaria, ma ne illumina lo sguardo per portare alla luce tutta la sua determinazione.
Snowpiercer (2013)
Come per altri suoi conterranei, anche per Bong Joon-ho arriva la chiamata da Hollywood. In una ardita co-produzione (nella quale porta con sé il fidato attore Song Kang-ho), il filmmaker coreano traspone sullo schermo la graphic novel francese Le Transperceneige, di Jacques Lobe e Jean-Marc Rochette.
Intitolato Snowpiercer, il film racconta la lotta di un gruppo di sopravvissuti, all’interno di un treno che trasporta ciò che resta dell’umanità dopo un’apocalisse ambientale. Questa enorme locomotiva viaggia da anni in un continuo moto intorno al globo, e al suo interno gli uomini hanno organizzato la vita come sanno fare meglio: i ricchi e gli abbienti in testa al treno con tutti i comfort, i poveri in fondo a dividersi le briciole e le rimanenze.
L’inevitabile rivolta dei reietti contro le gerarchie si basa su convinzioni tramandate dai primissimi passeggeri del treno. Allo stesso modo i potenti – alle direttive del misterioso costruttore del treno, fondatore della “nuova società” – credono in un ordine naturale e necessario. Il sistema precostituito guida da diversi anni le vite di questo micro-popolo, e per sovvertirlo i “buoni” devono compiere sacrifici; scoperchiare un vaso di Pandora che metterà alla prova le coscienze di tutti.
In Snowpiercer Bong si destreggia con altri generi – la fantascienza distopica e l’action – che gli consentono di portare all’estremo le conseguenze della divisione classista. Grazie a un insolito cast internazionale (Chris Evans, Tilda Swinton, John Hurt e il già citato Song) il regista mette in scena un variegato e adrenalinico conflitto tra ideologie. Il titolo più commerciale del “nuovo” prodigio coreano, seppure meno d’impatto rispetto agli altri, risulta un prodotto che tanti cineasti vorrebbero vantare nel loro curriculum.