Ne Il Signore degli Anelli di Tolkien, esiste un regno di nome Gondor che, al momento dei fatti narrati in questo articolo, è rappresentato da tre grandi Uomini legati dal sangue che scorre nelle loro vene: Denethor e i suoi due figli, Boromir e Faramir.
Indagarne la psicologia e capirne le motivazioni alla base delle loro azioni, significa liberarsi di quella immagine collettiva che, ormai dal 2001, si è stagliata nella nostra mente con la mastodontica opera di Peter Jackson che, sebbene abbia fatto un ottimo lavoro nel tratteggiarne caratteristiche peculiari, molto ha sacrificato.
E se pensiamo che, tra la versione integrale della pellicola e quella tagliata approdata nelle sale, proprio il rapporto fra i tre abbia subito omissioni evidenti, è necessario approfondire la tricotomia. Alla maniera manzoniana, sorvoliamo Gondor per poi entrare nel grande fortezza bianca di Minas Tirith e fare un viaggio turbinoso fra le menti di uomini apparentemente diversi tra loro, ma più simili di quanto possa pensarsi.
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Da Elendil a Eärnur, i Re
Come vedremo nelle prossime stagioni della serie tv di Amazon Prime Video, Gli Anelli del Potere, Gondor nacque alla fine della Seconda Era nella parte meridionale della Terra di Mezzo, in seguito all’opera edificatrice dei Númenóreani sopravvissuti all’Akallabêth del 3319; delle nove navi dei Fedeli in fuga, le cinque guidate dai fratelli Isildur e Anárion furono separate dalle restanti del padre Elendil e, mentre questo approdava a nord, i due entravano nella baia di Belfalas, risalivano il fiume Anduin e trovavano riparo a Osgiliath, antico approdo númenóreano eretto a capitale del nascente regno di Gondor.
Sotto i giovani, l’Ithilien, la regione circostante, crebbe sfruttando le “fattorie e feudi con acqua e strade di collegamento per provvedere alla sua popolazione” (Lettera 154, venticinque settembre 1954), ma visse sempre all’ombra della minaccia di Mordor, poco distante tanto che dalla capitale era possibile vedere l’Orodruin, il vulcano che Sauron usava come fucina e che fu chiamato anche Amon Amarth o Monte Fato.
Durante la Guerra dell’Ultima Alleanza, combattuta da Gil-galad ed Elrond nel 3430 S.E., la più vasta fortezza del nemico fu assediata ed espugnata nella Battaglia della piana di Dagorlad, ma Barad-dûr (Lugbùrz, Torre Nera o Grande Torre) non poteva essere distrutta se prima non fosse stato distrutto anche l’Anello (infatti Sauron tornerà a edificarla nel 2951 della Terza Era).
Ignaro di ciò che sarebbe accaduto, Isildur lasciò la corona al nipote Meneldil, essendo Anárion caduto durante la guerra e in marcia verso il Arnor per subentrare al padre, morto anch’egli. Da questo momento in poi, si succedettero trenta re a Gondor, eredi diretti della linea di sangue di Anárion, fino a Eärnur, distintosi durante la Battaglia di Fornost e nello scontro diretto con il Re Stregone di Angmar a Minas Morgul, da cui non fece mai ritorno. Morendo senza eredi, a Gondor si decise di affidare il regno ai Castaldi (o Sovrintendenti secondo la traduzione Alliata).
I Castaldi, figli di Húrin
Primo fra tutti fu il consigliere di re Minardil, Húrin dell’Emyn Arnen, scelto per la sua saggezza e l’alto lignaggio; tuttavia, a partire da Pelendur, la carica divenne ereditaria e si iniziò a tramandare di padre in figlio o da parente a parente prossimo, come si legge negli Annali dei Re e dei Governatori dell’Appendice A de Il Signore degli Anelli.
“[…] tenere lo scettro e regnare in nome del re, fino al suo ritorno” era il compito loro affidato, ma non rispettato perché presto assunsero i pieni poteri spadroneggiando a Gondor, nonostante vivessero in principio gli anni della Pace Vigile “durante i quali Sauron indietreggiò innanzi al potere del Bianco Consiglio e gli Schiavi dell’Anello rimasero nascosti nella Valle di Morgul”.
La situazione cambiò quando Denethor I assunse la carica, poiché il male riprese a serpeggiare e comparve la razza degli Uruk, che invasero l’Ithilien e si impadronirono di Osgiliath; nonostante questa fu ripresa da Boromir, la sua distruzione segnò l’inizio dell’indebolimento del regno che iniziò anche a ridursi in estensione e popolazione a causa degli attacchi di Glamhoth (nome Sindarin degli Orchi) e Balchoth.
Per la prima volta si udirono i corni dei Rohirrim
Le sorti della battaglia al Campo di Celebrant (2510 T.E.) sono alla base del forte legame che, da questo momento in poi, legherà Gondor a Rohan. Assediata dai Balchoth, Esterling di istanza nelle Terre Selvagge del Rhovanion a est di Bosco Atro, Gondor fu aiutata dagli Éothéod di Eorl il Giovane, che li disperse e uccise tutti; in segno di gratitudine, Cirion di Gondor donò loro il Calenardhon che, da quel momento, prese il nome di Riddermark (Terra dei Cavalieri) o Rohan mentre Eorl prestò il giuramento con il quale si impegnerà ad aiutare Gondor in caso di bisogno.
E mai alleanza fu tanto necessaria perché nuovi pericoli si affacciarono a Gondor, come ad esempio le flotte preparate da tempo provenienti da Umbar e dall’Harad che portarono ovunque miseria e morte sia a Gondor che a Rohan; ma, laddove il primo regno si riprese sotto la guida di Beren, il secondo faticò molto e fu per questo motivo che a Orthanc venne accolto Saruman (2759 T.E.).
Come sappiamo bene, questi prenderà il possesso di Isengard quando Barad-dûr sarà ricostruita e il Monte Fato avvamperà. Per Ecthelion II figlio di Turgon, si preparava la fortificazione del reame per contenere l’assalto di Sauron che arriverà sotto la sovrintendenza del successore, il nostro Denethor. Prima di conoscere da vicino i protagonisti dell’articolo, mi pare degno di nota raccontare di Thorongil.
Una minaccia per la sovrintendenza?
L’Aquila della Stella di Gondor era un capitano veloce e lungimirante, amato nel reame nonostante non vi appartenesse per nascita. Proveniva, infatti, da Rohan, ma non era neppure un Rohirrim. Ebbe il permesso di costruire una flotta con cui sorprendere in piena notte il porto di Umbar e anticipare così le mosse dei nemici. Ucciso il capitano dei Corsari, decise di non fare ritorno a Minas Tirith, lasciando Ecthelion, e la gente che gli avrebbe tributato grandi onori, nello sgomento di una lettera d’addio:
“Altri compiti mi attendono ora, sire, e dovranno passare molti pericoli e lunghi anni prima che io ritorni a Gondor, se tale è il mio destino”
Nessuno sapeva quali fossero questi compiti e chi ne avesse invocato l’aiuto, ma lo sconforto dilagò nei cuori di Gondor tranne in quello del figlio di Ecthelion, Denethor II, ormai maturo per la reggenza avvenuta a quattro anni dalla morte del padre. Perché fu quasi sollevato dalla partenza del capitano? Temeva potesse usurpare il seggio? Sentiva che suo padre potesse preferirlo a lui? Sono dubbi che hanno una certa rilevanza se collegati al suo attaccamento alla sovrintendenza e al suo rapporto con i figli Boromir e Faramir.
Dov’era Gondor quando cadde l’Ovestfalda?
Non posso concludere la parentesi su Gondor senza aver prima risposto al quesito che attanaglia noi spettatori da anni e che è diventato, al pari del pomodorino di Denethor, un meme parecchio divertente e adattabile a diverse, ilari, situazioni. Prima di tutto, occorre recuperare il secondo capitolo della trilogia di Peter Jackson, Le due Torri.
Theodred, figlio del re di Rohan Théoden, è caduto in battaglia e suo padre si prepara a contenere l’avanzata del nemico al Fosso di Helm, dove la popolazione si è riparata in cerca di salvezza. Quando Aragorn, che è lì a combattere al suo fianco con Gimli e Legolas, sollecita il re a chiedere aiuto a Gondor perché questa risponderà, Théoden dice che le vecchie alleanze sono, ormai, morte: suo figlio, infatti, quando combatté per difendere l’Ovestfalda, era solo e nessuno era giunto dal reame alleato.
Bene, alla domanda “Dov’era Gondor quando cadde l’Ovestfalda?” la risposta è sia di natura geografica che militare. La regione si trova a qualche centinaia di chilometri da Gondor quindi, se pure Theodred avesse chiesto aiuto, dubito i gondoriani sarebbero arrivati tempestivamente, considerando anche che a separarli c’era la catena dei Monti Bianchi. Inoltre, mentre l’Ovestfalda cadeva, Gondor era impegnata a difendere Osgiliath dagli Orchi di Sauron.
Le rimostranze di Théoden sono quelle di un padre che ha appena seppellito il figlio e, tra il dolore della perdita e la rabbia di vedersi assediato, non pensa a queste motivazioni di carattere puramente logistico. In più, forse dimentica che gli ultimi suoi anni erano trascorsi nell’oblio della magia nera di Saruman e del suo consigliere Rettilingua (o Grima Vermilinguo), il che aveva allontanato ancora di più i due regni, Rohan e Gondor.
Il padre oltre il banchetto
Siamo giunti al nostro Denethor, uno dei personaggi più iconici della trilogia di Jackson, divenuto celebre meme per la scena del banchetto in attesa della carica di Faramir per la difesa di Osgiliath ma, oltre l’uomo rancoroso che manda a morte certa un figlio dopo averne perso un altro, c’è di più.
Chi è Denethor
Dagli Annali leggiamo che divenne Sovrintendente nel 2984 T.E., dimostrando di essere un uomo “volitivo, che teneva ogni cosa nelle proprie mani”. Dalla moglie Finduilas di Dol Amroth ebbe due figli e quando questa morì, nel 2988 T.E., appassendo “come un fiore delle valli marittime trapiantato sopra una nuda roccia”, Denethor si fece più silenzioso di quanto già non fosse e cadde in una profonda tristezza che lo portò a passare molto tempo in ritiro nella sua torre.
Prevedendo che l’attacco del Nemico sarebbe avvenuto durante la sua reggenza e per superare in sapienza quel Thorongil di cui (qui ne abbiamo ulteriore conferma) era geloso, osò guardare nel Palantír e vide molte cose che accadevano a Gondor, tra i suoi uomini (si badi bene che nessuno si spinse mai fino a quel punto, essendo la Pietra di Anárion strettamente legata a quella posseduta da Sauron) e ne pagò le conseguenze: invecchiò prima del tempo e crebbero in lui disperazione e orgoglio quando vide lo scontro fra la Torre Bianca e Barad-dûr.
Divenne sospettoso di quanti non servissero lui direttamente, ma non si fece mai irretire dal potere oscuro “per la grande forza di volontà, per la sua integrità e per il suo diritto ad utilizzare la Pietra”, come si legge nel Dizionario dell’universo di J.R.R. Tolkien.
Intanto i suoi figli crebbero e si rivelarono molto diversi tra loro (per l’analisi nel dettaglio dei due caratteri, si vedano i paragrafi successivi), ma legati da profondo amore per cui Boromir sentiva il dovere di proteggere il più piccolo. Crescevano ignari delle preferenze del padre per uno di loro, non conoscendo la gelosia e la rivalità per guadagnarsi il suo affetto e l’ammirazione del popolo.
Questi sentimenti emergeranno forti durante la Guerra dell’Anello, combattuta alla fine della Terza Era, a cavallo tra il 3018 e 3019, alla fine della quale non ci sarebbe stata alcuna sovrintendenza per i due a causa del ritorno del legittimo erede di Gondor, Aragorn figlio di Arathorn.
La tragicità di un eroe cavalleresco: Boromir
Primogenito di Denethor e della Dúnadan Finduilas, nato nel 2978 T.E., Boromir è uno dei personaggi più interessanti del corollario tolkieniano, perché permette di parlare dell’epica cavalleresca e del suo topos. Assieme al fratello, nella versione cinematografica della trilogia, paga lo scotto dei tagli che non permettono di comprenderne a pieno la psicologia e ci viene mostrato come un uomo che vive la caduta, la redenzione, passando per la tentazione esercitata dall’Anello. Ma chi è davvero Boromir?
Chi è Boromir
Facciamo la conoscenza di Boromir durante il Consiglio di Elrond, nel Libro Secondo de La compagnia dell’Anello. Sebbene somigliante al padre nel volto e nell’orgoglio, era molto più simile al re Eärnur in quanto poco incline a prender moglie, forte e temerario in battaglia, poco interessato alla storia a meno che non si trattasse di epiche battaglie.
Con un temperamento del genere, appare ragionevole come, allo scoppio della Guerra dell’Anello, si propose per andare a Valforra (o Gran Burrone) al posto di Faramir e partecipare al Consiglio di Elrond dove, con toni aspri, suggerì di portare l’Unico a Minas Tirith e usarlo contro Sauron, dopo averlo osservato a lungo con occhi che brillavano.
Morirà ad Amon Hen il ventisei febbraio 3019, sorpreso da un gruppo di Uruk-hai recanti la mano bianca di Saruman; il suo corno spezzato giungerà a Gondor, aumentando la disperazione nel padre Denethor. Qui nasce una direttrice che porta idealmente Boromir indietro tra l’XI e il XII secolo quando Turoldo scrisse la Chanson de Roland, un poema epico cavalleresco incentrato sulla guerra tra Carlo Magno e i Saraceni, tra la Francia e la Spagna.
L’opera è divisa in tre parti e quella centrale è quasi interamente occupata dall’impresa eroica del paladino del re, Orlando, impegnato a combattere a Roncisvalle con le sue sole forze. Vale la pena leggerne alcuni versi per analizzare i parallelismi con il personaggio tolkieniano.
“[…] Sente Rolando che la morte di lui s’impossessa, giù dalla testa sul cuore gli discende. Sotto un pino è andato di corsa; sull’erba verde là s’è disteso prono; sotto di sé mette la sua spada e l’olifante; volse la sua testa verso la pagana gente: per ciò l’ha fatto, perché egli vuole, secondo è vero, che Carlo dica, e tutti quanti i suoi, che il nobil conte è morto vincitore. Recita il Mea culpa e fitto e sovente; pei suoi peccati a Dio offrì il suo guanto.
Il suo guanto destro a Dio per sommissione offrì; San Gabriele di sua mano l’ha preso. Sopra il suo braccio teneva il capo chinato; giunte le sue mani, è andato alla sua fine. Dio inviò il suo angelo Cherubino e San Michele del Periglio, insieme a loro San Gabriele qui venne; l’anima del conte portano in Paradiso”
Leggiamo ora della morte di Boromir dal capitolo I de Le due Torri:
“[…] Mentre correva le grida si levarono più forti, poi più fievoli, mentre il corno soffiava alla disperata. Striduli e feroci si levavano gli strilli degli Orchi, e di colpo i richiami del corno cessarono. […] A un miglio, forse, da Parth Galen, in una piccola radura non lontano dal lago trovò Boromir. Seduto con la schiena contro un grande albero, sembrava riposare.
Ma Aragorn vide che era trafitto da numerose frecce di nero piumate; impugnava ancora la spada, rotta però vicino all’elsa; al fianco aveva il corno, spaccato in due. “Ho cercato di prendere l’Anello a Frodo,” disse. “Mi dispiace. Ho pagato […] Addio, Aragorn! Va’ a Minas Tirith e salva la mia gente! Io ho fallito”
Entrambi i condottieri sono i migliori del regno e si impegnano in una causa più grande di loro per mettere alla prova il valore cavalleresco, a cui si accompagna una buona (quanto fatale) dose di orgoglio; questo si concreta nel corno che sono restii a suonare perché farlo avrebbe significato (nel linguaggio proprio dei cavalieri) arrendersi, chiedendo aiuto ai compagni vicini.
Orlando vive, come Boromir l’ascesa e la caduta e come lui si spegne nella redenzione, chiedendo perdono al suo Dio, mentre il capitano di Gondor chiederà perdono ad Aragorn riconosciuto, solo in questo momento, come suo re. Per queste assonanze, sia Orlando che il figlio di Gondor incarnano l’ideologia del mondo feudale e la difesa della fede, cristiana per Orlando, negli Uomini per Boromir.
L’amor cortese ai tempi di Faramir
Come il fratello nella trilogia di Jackson, Faramir è stato sacrificato molto perché molte delle sue scene sono state eliminate, recuperabili solo con la uncut version; non capiamo quale sia il suo rapporto con il fratello, non capiamo cosa suo padre pensi davvero di lui, non capiamo nemmeno come sia nato l’amore per Éowyn di Rohan. E, sempre come Boromir, rappresenta l’epica cavalleresca, ma vista da un’altra prospettiva, quella che “al cor gentile rempaira sempre amore“. Cerchiamo di fare chiarezza.
Chi è Faramir
Anche il figlio cadetto di Denethor, nato nel 2983 T.E., gli somigliava molto fisicamente ma, quanto a temperamento, ne divergeva in modo assoluto perché, pur leggendo nei cuori degli uomini, veniva spinto da pietà e compassione, piuttosto che da derisione. A differenza del fratello, amava la storia e la musica e, per tali peculiarità quasi da mecenate, era considerato meno coraggioso di Boromir. Ma non era così: semplicemente, “non cercava la gloria nel pericolo”, richiamando intrinsecamente la critica che Tolkien muove all’ofermod che portò Beorhtnoth alla rovina.
Ciò trova conferma nella Lettera 66, datata sei maggio 1944, in cui Tolkien racconta al figlio Christopher della nascita di un nuovo personaggio “saltato fuori camminando nei boschi dell’Ithilien” che avrebbe portato con sé “riflessioni molto valide sulla gloria marziale e sulla vera gloria” e un po’ gli sarebbe somigliato se non fosse stato per il coraggio che lo avrebbe contraddistinto (Lettera 180 del quindici gennaio 1956).
A indispettire il padre non erano solo le sue inclinazioni, ma anche l’amicizia con Gandalf il Grigio che solea insegnarli l’arte della saggezza, oltre che nozioni di scienza. Faramir incarna l’ideale cortese, nato nel sud della Francia nel XIII secolo e diffusosi nel resto dell’Europa grazie a Eleonora d’Aquitania, rispondente ad alcune strutture ben precise, da rispettarsi in relazione alla donna e al sovrano.
La donna, essere angelico che innalza lo spirito dell’uomo a sentimenti nobili, va amata di un amore disinteressato e virtuoso e conquistata con buone maniere, ars oratoria e gentilezza; l’uomo si pone al suo servizio come un vassallo. La stessa cosa accade con il re, ma con descrittori differenti, quali la difesa delle sue terre e della sua persona, anche a costo di sacrificare la propria vita.
Questi aspetti del suo carattere emergono chiaramente con Éowyn, la scudiera di Rohan, e con suo padre Denethor, nei confronti del quale è tanto assoggettato da rasentare forti livelli di autodistruzione e autolesionismo. Sul suo rapporto con la donna occorre chiarire la posizione di Tolkien nei confronti dell’amore cortese e del ruolo che lei assume in tale connotazione. Il punto di partenza per raccontarci di loro è sicuramente l’ideale cortese ma, essendo avvezzo ai ribaltamenti del canone, cala la coppia in un contesto più concreto e realistico.
Éowyn non è la dama impaurita da salvare al galoppo di un destriero bianco, ma una donna forte che ripone la spada per imparare l’arte della guarigione e infondere vita laddove c’è morte; al pari, Faramir la ama di un amore bel lontano dal pietismo e dalla necessità di avere una stella – guida: nella Lettera 43 indirizzata al figlio Michael (sei-otto marzo 1941), l’autore approfondisce, infatti, l’ambiguità dell’amore cortese che faceva della dama “una divinità […] la donna che egli ama, l’oggetto o la ragione di una nobile condotta”.
Per Tolkien, la donna amata era un essere caduto piuttosto che un angelo, era un’essere in pericolo dai contorni estremamente reali. Ed ecco che Éowyn e Faramir si incontrano tra ciò che resta della battaglia, sanciscono la ritrovata unione dei regni di Rohan e Gondor e trovano il loro riscatto da una vita che li ha messi in ginocchio.
Da Il Signore degli Anelli alla psicanalisi freudiana
Approfondendo il carattere e le attitudini dei figli di Denethor, non possiamo non citare il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, per cui i processi psichici inconsci influenzano il pensiero, il comportamento e le relazioni degli uomini. Se può sembrare strano psicanalizzare i personaggi di un romanzo high fantasy, vorrei ricordare che un’équipe dell’University College di Londra ha condotto studi psichiatrici sul personaggio di Gollum per capirne patologie e scoprirne le cause.
Sia Boromir che Faramir, hanno una relazione tanto particolare quanto antitetica con il padre, a causa dell’amore smisurato di quest’ultimo per un figlio e il rigetto nei confronti dell’altro, ma anche per via dei loro diversi caratteri. Freud, nell’indagine dei traumi che affliggono gli uomini e le donne, ha teorizzato diversi complessi, tra cui quello di Edipo che sarà sviscerato nelle sue peculiarità a breve.
La psicanalisi moderna, affondando le radici negli studi di Jacques Lacan prima e Massimo Recalcati dopo, ne ha strutturato un altro che rovescia il precedente, quello di Telemaco. Nel nostro caso specifico, tali problematiche saranno trattate, rispettivamente, in relazione a Boromir e Faramir.
Per comodità logistica, partirei dall’analisi del più noto complesso di Edipo, considerando che questo non si adatta fedelmente ai personaggi creati dalla mente di Tolkien, ma ne rappresenta una lettura parziale, mancando l’elemento fondamentale di tali problematiche, cioè quello materno. Poco, infatti, sappiamo dei rapporti che intercorrevano tra Finduilas e i suoi figli. Mi preme anche specificare quanto il confine tra Boromir e Faramir spesso sia labile e atteggiamenti di uno rientrano a pieno diritto nel complesso dell’altro.
Boromir e il complesso di Edipo
L’Edipo re è la tragedia greca di Sofocle il cui protagonista sposa la madre e con lei ha dei figli poiché, abbandonato alla nascita, non ne conosceva l’identità; si farà anche patricida e, quando scoprirà la verità sul suo passato, si accecherà e condannerà all’esilio. Il suo dramma di figlio ed erede che lo ingabbia in una sorta di odio rivestito d’amore genera un’oscillazione tra il padre ideale e il padre rivale, che diventano dunque i due poli del complesso individuato da Freud.
Edipo è la trasgressione della Legge perché, seppur a sua insaputa, commette omicidio e incesto, frantumando l’ordine naturale delle cose.
Anche se può sembrare lontano queste dinamiche, credo che Boromir ne sia più vicino di quanto possa sembrare. Siamo abituati a parlare di lui come l’eroe in bilico tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e che si lascia tentare dal Male ma, se fosse sopravvissuto, cosa sarebbe successo?
Probabilmente, anche loro sarebbero entrati presto in conflitto perché, nella dinamica di riconoscimento dei ruoli, prima o poi Boromir avrebbe dovuto tagliare di netto quel cordone che lo legava al padre e Denethor avrebbe dovuto lasciarlo camminare da solo. Ci sarebbero riusciti senza drastiche conseguenze?
La morte prematura del primogenito e il poco materiale di cui disponiamo non ci permettono di indagare nel profondo determinate possibili dinamiche, ma ci forniscono alcune particolari spie. Il padre si fidava ciecamente del figlio e aveva riposto in lui le speranze di avere con sé l’Unico, come leggiamo nel dialogo con Faramir:
“[…] avrebbe ricordato suo padre bisognoso d’aiuto, e non avrebbe rifiutato ciò che la fortuna gli dava. Egli mi avrebbe portato un potente dono”
Se Boromir davvero fosse riuscito a strappare l’Anello a Frodo e lo avesse portato al genitore, essendo buono d’animo (come la sua redenzione finale ha dimostrato) si sarebbe reso conto dell’errore e sarebbe giunto a scontrarsi con la follia del padre. Lo scontro diretto sarebbe stato l’unico modo per svincolarsi dal peso ingombrante del padre e dalla sua follia crescente. Il figlio avrebbe dovuto idealmente uccidere il padre per affermare se stesso.
Faramir e il complesso di Telemaco
Tutti, almeno una volta nella vita, siamo stati Telemaco. Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo guardato il mare aspettando qualcuno. Telemaco è il figlio di Ulisse che, nell’attesa del suo ritorno in patria, cerca di proteggere Itaca dai Proci usurpatori. L’autorità di Ulisse viene meno con la lontananza e il figlio deve farsi uomo ed emanciparsi per staccarsi dal genitore che non avverte come rivale, ma come “un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la legge della parola sulla propria terra”.
Telemaco è l’invocazione della Legge per realizzare il movimento di riconquista del proprio futuro e della propria eredità, lui che è il figlio giusto che cerca il padre e di lui ha bisogno.
In entrambe le vicende i padri tramontano (o devono farlo) per l’affermazione dei figli, ma cambiano le modalità con cui questi ultimi attuano il distacco. Il complesso di Telemaco non solo ribalta il più datato complesso di Edipo, ma ne rappresenta un’evoluzione matura e coscienziosa che porta con sé una sfumatura malinconica, soprattutto se pensiamo allo stretto legame che ha con la società:
“Se da una parte l’autorità simbolica del padre […] è irreversibilmente tramontata, dall’altra nuovi segnali, sempre più insistenti, giungono dalla società civile, dal mondo della politica e della cultura, a rilanciare una inedita e pressante domanda di padre”
Questo è il peso maggiore che incombe allora sul figlio ed erede, quello di innestarsi nella collettività, sostituendosi al padre. Appare evidente quanto sia maggiormente complessa la dinamica che affligge Telemaco. Dalle caratteristiche di tale complesso, mi sembra possa esserci margine per adattarlo alla figura di Faramir perché anche il giovane aspetta un segnale dal padre che possa infondergli la fiducia che merita:
“[…] “Allora, addio!”, disse Faramir. “Ma se io dovessi ritornare, abbi una migliore opinione di me!” “Dipende da come ritornerai”, disse Denethor”
Denethor: paranoico, oltremodo schizofrenico?
Mi ha sempre affascinato l’indagine psicologica dei caratteri umani, ancor più quella dei personaggi di fantasia, perché ciò permette di riconoscerci in loro, nel bene e nel male. La cura al dettaglio che caratterizza la narrazione tolkieniana basta già ad avvicinarci alla tranquillità d’animo degli Hobbit o allo spirto guerrier che muove gli Uomini per cui, ognuno di noi, sa bene quale personaggio della Terra di Mezzo vorrebbe essere se dovesse rinascere.
Jackson ha dato ulteriore spessore ai protagonisti dell’opera che, seppur divergono (com’è naturale) dall’opera scritta, sono ottimi adattamenti della stessa. Denethor è uno di quei personaggi che finisce puntualmente in fondo alla lista di gradimento, per la sua irragionevolezza e follia; io lo amo, anche perché dietro la maschera si nasconde John Noble, uno dei volti più importanti di Fringe, serie di fantascienza figlia indiretta del capolavoro di David Lynch, Twin Peaks.
Dunque sono impegnata a cercare di capire quale patologia possa affliggere anche lui. Il risultato sembrerà eccessivo ai più, ma si tratta di un divertissement da non prendere alla lettera, ma come spunto per rifletterci su. Ebbene, Denethor sembrerebbe affetto da schizofrenia paranoide, una patologia che si manifesta con deliri e allucinazioni che fanno perdere al soggetto il contatto con la realtà e lo pongono in uno stato di sospetto e diffidenza psicotica (o paranoide, per l’appunto) nei confronti degli altri.
Mi ha dato da pensare soprattutto la scelta di bruciare il corpo di Faramir in un rogo collettivo per porre fine alla sua casata, atteggiamento che si tradurrebbe con l’alterazione dell’affettività, sintomo ricorrente all’acume di tale malattia psichiatrica.
La genitorialità nella letteratura
Come è evidente, la figura genitoriale, maschile o femminile che sia, ricopre un ruolo decisivo nella formazione nel bambino, futuro uomo e parte integrante della collettività. Il ruolo è stato studiato non solo dalla psicanalisi, ma anche dalla letteratura, specie a partire dall’inizio del Novecento, quando la cultura letteraria e artistica ebbe a disposizione nuovi strumenti di indagine della psiche.
Da Egon Schiele (L’ispettore generale Heinrich Benesch e suo figlio Otto, 1913) a Salvatore Quasimodo (Al padre, 1958), passando per Italo Svevo (La coscienza di Zeno, 1923), i padri sono stati da sempre identificati come rivali dei figli maschi o, in casi molto più rari, assunti come oggetto di estrema, ma rispettosa, venerazione.
Le opere di questo tipo ruotano attorno al tema della paternità tossica che si riversa sull’inettitudine dei figli, causando ansia, senso di impotenza e alibi di ogni tipo per giustificare i fallimenti della vita. Oltre ai già citati, caso emblematico è rappresentato da Kafka.
Da Tolkien a Kafka: la Lettera al padre
Cosa unisce J.R.R. Tolkien a Franz Kafka? Forse più di quanto possa sembrare, alla luce dell’analisi sinora condotta. Nel 1919, il romanziere boemo scrisse una lunga lettera al padre che non vedrà mai la pubblicazione se non dopo la sua morte, avvenuta nel 1924.
L’epistola comincia in questo disarmante modo:
“Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente”
L’opera mette in luce diversi aspetti del carattere del giovane scrittore e particolari dinamiche che, negli ultimi anni e in seguito a fantomatici tradimenti di carattere lavorativo, erano diventate delle costanti alla base della quasi totale assenza di comunicazione in casa Kafka.
L’aria tesa gravava sul ragazzo, diviso tra velleità letterarie e responsabilità dovute dall’essere il solo figlio maschio, nonché dal desiderio di avviarsi alla carriera letteraria e il dovere di metter su famiglia, com’era naturale per un giovane uomo della sua età. La sua famiglia si aspettava tanto da lui e lui non poteva fare a meno di deluderli perché quello che viveva era un forte stato di disagio, come se non sentisse di appartenervi.
“Mi incoraggiavi, ad esempio, quando ero bravo a fare il saluto militare e a marciare, ma io non ero un futuro soldato; oppure mi incoraggiavi quando mangiavo d’appetito o addirittura ci bevevo su anche una birra, quando ripetevo canti dal significato a me oscuro o scimmiottavo i tuoi modi di dire preferiti, ma niente di tutto ciò rientrava nel mio futuro“
Scritta con l’intenzione di far cambiare idea al padre sulla sua futura nuora, una donna che l’uomo considerava di rango inferiore e dai costumi troppo leggeri, la lettera diventa il pretesto per parlare di quel genitore che, a ben vedere la produzione kafkiana, torna in ogni opera e sotto diverse forme:
“Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella direzione da me determinata. Ma quanto era poco, tutto ciò!”
La metamorfosi (1915), Nella colonia penale (1919) e Il processo (postumo, 1925) nascono da atteggiamenti o aneddoti del padre che incidono sull’animo debole di Kafka e, puntualmente in ogni scritto, Telemaco sente di dover affermare se stesso e la propria individualità; e, quando ciò si rileva inefficiente, è necessario che emerga Edipo dal profondo per operare un taglio netto.
Il Signore degli Anelli non è certo un romanzo psicologico, ma Tolkien amava tratteggiare i suoi personaggi di sfumature particolari che, oggi, li rendono oggetto di studi socio-psicologici. Alcuni dei limiti imposti e autoinflitti di Kafka, mi sembrano tornare nella personalità di Faramir, prigioniero di una stanza costruita da un padre imponente e autoritario che lo porta a giudicare se stesso colpevole (senza colpa alcuna) e abituarsi a questa situazione, accettando inesorabilmente il suo destino e sacrificando (senza motivo alcuno) la sua vita.
“Avresti quindi desiderato”, disse Faramir, “che io fossi al posto suo?” “Sì, l’avrei davvero desiderato”, rispose Denethor. “Perché Boromir era leale verso di me e non era il pupillo di uno stregone. Avrebbe ricordato suo padre bisognoso d’aiuto, e non avrebbe rifiutato ciò che la fortuna gli dava. Egli mi avrebbe portato un potente dono”