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The Bear: Anatomia di una brigata allo sbando

The Bear uscita su Disney+ in l’Italia nel 2022, è una di quelle serie che non può non colpirti nel profondo puntata dopo puntata. Precisamente riesce a scavarti dentro e a toccarti nei punti più intimi del tuo animo facendoti provare una moltitudine di sensazioni tanto è forte l’esperienza di immersione emotiva.

 

 

Probabilmente il motivo è dovuto a più aspetti: la crudezza del racconto concentrato nei sobborghi di una Chicago colpita da una forte crisi economica; il fatto di come sia spaccato il capello in quattro analizzando realmente i ritmi inumani di lavoro di una brigata in una cucina sgangherata. Il mettere sotto la lente di ingrandimento le problematiche emotive che caratterizzano il protagonista e non solo, vivisezionandole pezzo dopo pezzo.

Una produzione che merita ogni celebrazione e che, giustamente, per la qualità straordinaria delle doti attoriali dell’intero cast – su tutti Jeremy White, già eccezionale in Shameless, altra serie di cui consiglio la visione – ha saputo offrire una prova degna di nota, incoronata all’unisono come serie dell’anno per poi confermarsi anche nella sua seconda stagione. The Bear, insomma, contiene tutti gli ingredienti adatti per potersi consolidare come show iconico e risiedere nell’olimpo riservato ai gioielli del piccolo schermo.

 

Pezzi di vita rosolati a puntino

Cosa rende The Bear tanto speciale? Non siamo di fronte alla solita serie che vuole limitarsi a raccontare tematiche disfunzionali, punta invece a incarnare un vero e proprio diario di vita in cui vengono narrati i più profondi e torbidi disagi esistenziali di un gruppo di persone affette da profondi traumi.

Figure afflitte dalla sindrome di vittimismo dovuta a un passato travagliato, che inevitabilmente ogni giorno opprime e condiziona le loro scelte: come nel caso del protagonista, appestato da criptici sogni che lo vedono ogni notte sobbalzare ed essere travolto dal panico.

 

The Bear 2

 

Personalmente reputo The Bear pura poesia, come solo poche altre serie sono riuscite a toccarmi intimamente e nel profondo. Un prodotto che riesce con le sue due stagioni (attualmente) a trascendere il mero intrattenimento per adempiere a una vera e propria funzione di studio sociale: raccontare un crudo spaccato di vita e le difficoltà che ogni persona può affrontare cercando di ripartire da zero.

Perché quest’opera non vuole solo soffermarsi sul tema culinario che comunque risulta molto interessante, o sull’aspetto professionale dei ritmi estenuanti di una brigata e quanto sacrificio richieda raggiungere i massimi livelli. Fa molto di più, cerca di esplorare strati più profondi della psiche umana.

Gli sceneggiatori sono partiti da un’idea, la cucina, che potesse diventare filo conduttore e diramarsi in ogni potenziale direzione, che potesse abbracciare gli stati d’animo e le tensioni che un tale lavoro produce. Analizzare il contesto in cui si sviluppa la storia, la cultura e il modus operandi su cui il ristorante si fonda, la società trasformata nella clientela e altre tematiche più intime, come rapporti di famiglia, di amicizia, di amori conflittuali e altalenanti.

In pratica affrontare ogni caratteristica e tematica della vita quotidiana e dei conseguenti rapporti che si intrecciano, si sfilacciano, si intossicano anche reciprocamente. The Bear è questo e altro, un vero micromondo. Ci spinge alla più morbosa curiosità che puntata dopo puntata sentiamo crescere e che non possiamo contenere. La tensione è palpabile sin dalla prima puntata ed è proprio sin dalle prime scene che l’interesse si innesca, si coltiva e produce una curiosità sempre più pulsante che ci ipnotizza.

 

Il retrogusto che si cela dietro ogni sapore

The Bear mostra un’accurata strutturazione nella scrittura dei personaggi con specifici caratteri che si distinguono l’uno dall’altro: sono molti i co-protagonisti che hanno qualcosa da raccontare, come ad esempio l’amico di infanzia  Richard o la sorella Natalie ma non solo.

L’aspetto psicologico è molto importante, anzi, è sicuramente l’elemento cardine su cui poggia la narrazione che ci svela sempre nuovi altarini; maschere che a ripetizione cadono per mostrarci le sfaccettature più intime della fragile condizione umana dove esistenzialismo e disillusione la fanno da padroni.

La figura principe che mostra simili problematiche a livello di interazione nel non saper coltivare gli affetti e più in generale il rapporto con il prossimo, è sicuramente il protagonista: Carmy. Un ragazzo che all’apparenza dovrebbe essere gratificato dalla vita avendo raggiunto il massimo livello come chef ma che per qualche motivo, colpito da sogni inquietanti e una profonda insicurezza, si complica la vita palesando una perenne insoddisfazione che lo divora dentro.

Questo suo malessere non solo sarà manifestato ma, come se fosse un’escalation, provocherà ripetuti atteggiamenti malsani, per meglio dire cancerogeni, che un capo non dovrebbe avere e che purtroppo lo faranno cascare nell’errore di litigare con diversi membri della squadra, rischiando di mandare in fumo il suo stesso progetto.

 

Se cucini a lungo nell’abisso alla fine sarà l’abisso a cucinare te

La sofferenza più grande che tormenta l’animo di genio maledetto di Carmy è il rapporto turbolento che non è mai riuscito a ricucire con il fratello defunto Mike (il nostro buon Jon Bernthal, che tutti ricordiamo come Shane in The Walking Dead e Frank Castle in The Punisher), ex-proprietario del locale The Bear.

Proprio la morte del fratello, che risulterà il suo più grande rammarico e rimpianto, sarà il meccanismo di innesco per farlo tornare a Chicago e continuare la fallimentare attività di famiglia.

 

 

Il motivo del suo desiderio di innalzare il livello dell’attività familiare si fonderà principalmente sul sogno di poter mettere a servizio il suo talento e creare una propria brigata in quello stesso locale dove, in origine, avrebbe desiderato lavorare fianco a fianco con il riluttante fratello.

Ovviamente le difficoltà non saranno poche, anzi. In ogni episodio ci viene mostrato un aspetto del malsano contesto che ci fa comprendere, nel profondo, i motivi per cui Carmy sia scappato da Chicago: l’irrefrenabile desiderio di lasciarsi alle spalle dei rapporti che lo hanno intossicato nel profondo al punto da mettere in dubbio le sue capacità e arrivare ad odiarsi profondamente.

 

Tutta questione di condimento

È pur vero, comunque, che la serie lascia spazio anche ad aspetti più ottimistici, quali il rinnovato amore per la famiglia o più in generale, il valore del rapporto umano in cui non tutto è da buttare, ma che anzi sarà occasione per confronti anche costruttivi: ad esempio il rapporto tra Carmy e Richard, che solidificheranno l’affiatamento per lavorare sulle rispettive criticità e divergenze.

 

 

Anche con gli altri membri della brigata vi sarà modo di costruire una sana complicità che permetterà di rinascere sul piano personale, oltre che su quello professionale. Sarà proprio il rapporto umano che permetterà di superare limiti a livello di comunicazione così da poter carburare con i propri tempi smussando anche i caratteri più spigolosi: vedi sempre Richard o Tina, inizialmente in competizione con la sous chef Sidney.

In sostanza, ogni episodio scava e analizza una specifica figura dando vita a un insieme che si impegnerà, una volta consolidatosi come squadra, a fare fronte comune e diventare l’uno il sostegno dell’altro.

 

La ricerca dell’equilibrio giusto

The Bear non è solo il rapporto di una brigata che cresce e matura, è anche l’evoluzione dell’individualità rafforzata dal coraggio di liberarsi dei propri timori. Essere in grado di guardare in faccia lo spauracchio della sofferenza cristallizzata dai propri fallimenti, disillusioni o contesti critici in cui si è cresciuti. Poter rinascere e credere nelle seconde occasioni. A tal proposito vi sono diversi momenti che inquadrano gli aspetti psicologici dei personaggi,  ognuno impegnato ad affrontare le rispettive battaglie.

 

I guess all the time… I feel like I’m kind of trapped… Because I can’t describe how I’m feeling…

 

Una delle scene più toccanti della serie, basata proprio sul conflitto e l’accettazione, è la riflessione che fa Carmy durante una riunione agli alcolisti anonimi: un monologo da brividi che parla del rapporto con il  fratello in cui analizza i suoi stessi limiti, le sue insicurezze, i suoi timori.

Il malsano confronto tra l’insoddisfazione di non essere all’altezza e la figura di Mike che ha sempre venerato al pari di un Dio. The Bear è quindi una disamina a trecentosessanta gradi dell’elemento introspettivo. Si potrebbe analizzare ogni puntata e trovare momenti di pura bellezza per come viene sondato l’animo umano e il relativo studio sull’esperienza.

Carmy, Sidney, Richard, Natalie, Neil, Marcus, Mike, Uncle, Tina, Pete, Ebraheim, Sweps e poi Mike (ricordandolo tramite i flashback) e altri personaggi, sono singoli ingredienti necessari che sanno miscelarsi e insaporire The Bear, ognuno a suo modo.

 

Sia nella prima che nella seconda stagione vengono toccati picchi altissimi a livello recitativo. Ad esempio mi viene in mente l’episodio Forks, in italiano Forchette, che racconta nel dettaglio le disavventure della famiglia Berzatto durante la stravagante vigilia di Natale.

Una cruda anatomia che si concentra sullo stagnante rapporto tra i figli – soprattutto Carmy e Natalie – con la madre  interpretata da una Jamie Lee Curtis in forma smagliante, ulteriore riprova del suo talento (consacrato con la vittoria agli Oscar nella categoria miglior attrice non protagonista per Everything Everywhere All at Once).

The Bear non vive mai momenti di stallo ma viene sempre tenuta sul pezzo. Storie di vita quotidiana, come già sottolineato, che vanno ad intrecciarsi e che generano microtrame all’interno di una trama generale curata in ogni aspetto e particolare.

 

 

Una serie che ti inchioda sul divano sin dal primo episodio partendo subito a razzo senza divagare, ma entrando a gamba tesa nel nocciolo della questione. Ogni attore si dimostra perfetto per il ruolo assegnatogli, come se la parte affidatagli fosse un abito di alta sartoria cucitogli splendidamente addosso.

Si dice che le serie televisive non possano toccare la medesima componente artistica che è racchiusa in un film a causa del frazionamento del ritmo dovuto alla struttura a puntate, ma in questo caso proprio perché il lavoro è stato meticolosamente curato in ogni suo dettaglio, la quintessenza della recitazione esce fuori dal guscio e nutre la storia regalandoci sequenze tanto magistrali da rimanerne sedotti.

In conclusione, la prossima volta che fate zapping su Disney+ e vi compare la locandina di The Bear, non tentennate, cliccateci sopra e godetevi questo gioiello che saprà toccare il vostro cuore e conquistarvi.

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